Foto d'archivio. Ansa 

Il concorso ci ricorda dei molti insegnanti allergici alla selezione

Antonio Gurrado

A ogni tornata di gara per la selezione dei professori di ruolo, puntuale cade la pioggia di articoli sulle recriminazioni dei respinti

È l’eterno ricorso dell’uguale. A ogni tornata di concorso pubblico per la selezione degli insegnanti di ruolo, puntuale cade la pioggia di articoli sulle recriminazioni dei respinti, che quest’anno pare ammontino alla preoccupante quota del 90 per cento: le domande a risposta multipla sono ingannevoli, sono ostiche, sono trabocchetti, sono del tutto casuali, sono troppo poco indicative per costituire un valido criterio di selezione. Si scova allora il cavillo, ci si avvita sulla formulazione ambigua o imprecisa di un quesito, si fornisce una giustificazione speciosa ai propri errori e, se non ci si è persi d’animo, si corre subito dall’avvocato facendo leva sulla comprensione benevola dell’opinione pubblica.

  
Gli insegnanti intervistati da Repubblica parlano di quiz in stile Amadeus, di inaccettabile nozionismo, di selezione più ingiusta che per sorteggio. Sul Fatto leggo di candidati che protestano perché è stato richiesto loro di riconoscere da quale opera provenissero parole di Montale tratte in realtà dal discorso per il Nobel (materiale per semiologi, oltre che per avvocati: il discorso per il Nobel può essere considerato un’opera?). Candidati che si irritano se viene richiesto loro in quale canto della Commedia compaia Giustiniano. Che si domandano il senso di sapere se un determinato trattato di pace sia del 1870 o del 1871. I miei preferiti sono quelli spiazzati dalla domanda sulla data di fondazione di Israele: le risposte alternative indicano il 15 maggio di quattro anni diversi e loro restano tutti con la penna a mezz’aria, sapendo che la data esatta è il 14 maggio. L’anno, però, non se lo ricordano.
    

E’ sempre colpa dell’arbitro. O del vento, della sfortuna, del net – come diceva Nanni Moretti riguardo alle spallucce vittimiste dei tennisti italiani di vent’anni fa. Le spallucce dei concorsisti non sono da meno: se uno avesse la pazienza, avrebbe potuto fino a oggi raccogliere un volumone di ritagli che spazi dalla sommossa contro le domande di logica (del resto, a cosa serve la logica?) alle rivendicazioni contro le competenze di informatica, dalla resistenza luddista all’introduzione dello scritto su computer alla generica insofferenza per domande che ora sono mal poste, ora sono troppo specifiche, ora sono confusamente generiche, ora non ricadono esattamente nel settore disciplinare, ora sono troppo focalizzate sulla classe di concorso tralasciando la visione d’insieme e sempre, sempre, finiscono per non tenere debito conto delle capacità del candidato. Il concorso ideale è quello che non chiede nulla.
 

Il problema, viene da dire, è a monte: non riguarda l’espletazione del concorso di per sé, altrimenti nel giro di decenni si sarebbe pur trovato un metodo che non facesse masticare veleno gridando all’ingiustizia. Riguarda invece il presupposto dell’allergia italiana nei confronti della selezione: che, in quanto tale, deve per forza venire attuata secondo un criterio che inevitabilmente risulterà iniquo a seconda del lato da cui lo si consideri; che deve per forza lasciare qualcuno col sedere per terra, a meno di non trasformarsi in amnistia della didattica.
  

Certo, un concorso con domande a risposta multipla è uno strumento troppo superficiale per valutare le capacità di un insegnante, è un’ordalia a capocchia che rischia di bocciare in prima istanza candidati ideali che magari quel giorno erano fuori forma. Tanto più che buona parte dei candidati già insegna e, fallito il concorso, torna comunque in cattedra il giorno dopo come supplente, magari dimostrandosi validissimo sul campo: a riprova dell’ormai conclamata incoerenza sghemba fra le esigenze teoriche dei concorsi e le esigenze pratiche delle scuole, una situazione paradossale in cui lo stesso insegnante è respinto nel primo caso e necessario nel secondo.
    

Un modo per ovviare al problema ci sarebbe: lasciare che siano i curriculum dei candidati a parlare e i presidi a selezionarli direttamente, vagliandoli in base alle esigenze concrete dell’istituto tramite una chiamata diretta in cui rispondano delle proprie scelte. E’ uno strumento che si chiama colloquio di lavoro e che assicurano funzionare da tempo nei contesti più insospettati. A quel punto però non protesterebbero comunque tutti i candidati scartati, non si farebbero intervistare da agguerritissimi quotidiani, non richiederebbero a gran voce il ritorno all’equità e all’affidabilità di un bel concorso pubblico?
   

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