Tutti in maschera
La fashion week nelle scuole è il sintomo dell'omologazione di una generazione
Prima i vestiti erano poco importanti nella costruzione di una personalità: adesso sono tutto. Così per i ragazzi la forma diventa più importante della sostanza
Le cose cambiano, non bisogna prendersela a male, giudicare sdegnati, rimembrare il bel tempo che fu: le cose sono sempre cambiate e chi invecchia fatica a inquadrarle nella cornice di pensieri e sentimenti dentro la quale ha messo la propria vita. In questi ultimi giorni nella mia scuola, ma anche in tante altre scuole italiane, c’è stata la fashion week. Non è nemmeno tanto semplice capire di che cosa si tratta, serve uno studente volenteroso e bendisposto a spiegare il senso di questa allegra mascherata. In pratica, mi dice Michele della quarta, per ogni giorno della settimana viene scelto un tema, e poi tutti gli studenti si vestono, o forse è meglio dire si travestono, seguendo quella indicazione.
Una mattina avevano tutti le magliette delle squadre di calcio, rossonere, giallorosse, biancazzurre, e pantaloni della tuta e Nike. La scuola sembrava lo spogliatoio dello stadio Olimpico, tutti zompettavano felici nella loro tenuta sportiva, perché il tema era proprio questo. Guardavo e intuivo. Il giorno dopo già non ho capito più niente. Il tema era: personaggi delle serie televisive. L’immaginario dei ragazzi si forma attorno a “La casa di carta”, “Stranger hings”, “Vis a vis”, alle vicende, ai modi di dire e di mostrarsi dei protagonisti di quelle vicende che vanno avanti per decine e decine di puntate, gocce che battono e scavano ogni eventuale resistenza.
Loro si riconoscevano al volo, si chiamavano lungo i corridoi con i nomi di quei personaggi, ridevano e scherzavano per le somiglianze e per gli errori nell’abbigliamento, come se fossero Arlecchino o Pulcinella, maschere universali. Per me, puro ostrogoto. Il terzo giorno invece erano tutti vestiti “da discoteca”: minigonne minime, canotte sbrilluccicanti, tacchi alti, e i maschi con la camicia bianca e i pantaloni scuri e corti alla caviglia. Una carnevalata senza troppo senso, ma che racconta bene quanto l’abito faccia il monaco, nella nostra epoca.
Ho cercato di ricordarmi che vestiti avevo a diciassette anni, una vita fa, in pieni anni Settanta. Ebbene, non mi è tornato in mente quasi nulla: sì, un maglione norvegese, le Clark, i jeans, ma mi sembra che quand’ero ragazzo non mi importasse proprio nulla dei vestiti, e forse era lo stesso anche per i miei amici. L’armadio era mezzo vuoto, quattro camicie, due maglioni, due pantaloni, indumenti da indossare in fretta la mattina quasi senza farci caso. La vita era altrove, la costruzione della personalità passava per altre prove: la politica, i libri importanti, i film d’autore, l’amore grande e infelice, i viaggi fatti con quattro soldi, i discorsi seri o seriosi con gli amici a notte fonda davanti ai cineclub. Non dico che era meglio, anche io ero condizionato da mille suggestioni esterne, da un senso cronico di inadeguatezza, dalla voglia disperata di diventare grande in fretta, di capire tutto. Dico solo che era diverso.
Oggi conta moltissimo il modo in cui ti presenti sul palcoscenico del mondo, le differenze stanno in un taglio di capelli o in un tatuaggio, si è giusti o sbagliati anche solo per un paio di scarpe. Oggi l’apparenza è diventata sostanza, e la sostanza non si sa più dov’è, cos’è. Ho visto il figlio di una mia conoscente che cercava di acconciarsi da narcotrafficante degli anni Ottanta, perché nella sua scuola il tema del giorno dopo era quello, malavitosi colombiani. La moda crea la personalità, sei ciò che sembri. E del resto anche nel mondo della musica, il più seguito dai ragazzi, l’aspetto visivo spesso prevale su quello artistico, i cantanti ripongono una cura assoluta nei vestiti, devono identificarsi e fare colpo soprattutto con la loro presenza teatrale. Qualcuno mi ha detto: in fondo è sempre stato così, anche i Queen o i Metallica o i Cure si presentavano abbigliati secondo un look preciso, inconfondibile.
Forse è vero, però ho l’impressione che oggi la società dello spettacolo abbia un potere di condizionamento mille volte più forte di prima. La fashion week era inimmaginabile, anzi i ragazzi tendevano a rifiutare quello che gli veniva imposto dall’alto, c’era una dialettica feroce tra cultura di massa e controcultura giovanile. Oggi non è più così, oggi è bello somigliare alle star, anche solo per una settimana, anche solo per gioco. Oggi siamo spettatori di un mondo immaginato altrove, c’è un kit pronto per essere acquistato e usato. Le cose cambiano, a volte si conquistano faticosamente, a volte si comprano, se i soldi bastano.