esame supercazzola
Che cosa ci insegnano della scuola italiana gli errori nelle tracce del concorso per prof.
L’idea che emerge è una macchina di selezione che perpetua e privilegia quegli stessi difetti di cui la scuola sembra alimentarsi insaziabilmente. E che presta un’attenzione smodata alla forma a discapito della sostanza
È stato un po’ come nella celebre scena di “Io e Annie”. In fila per il cinema, Woody Allen sente un accademico pontificare su Marshall McLuhan finché non sbuca Marshall McLuhan in persona, il quale rimbrotta il finto esperto dandogli dell’incompetente. Lo stesso è capitato al ministero dell’Istruzione, che qualche giorno fa ha ricevuto una pec da Howard Gardner: lo psicologo statunitense faceva presente, to whom it may concern, che la domanda del concorso docenti relativa alla sua definizione di intelligenza era posta in forma inappropriata, quindi nessuna delle quattro risposte possibili era corretta.
Si tratta solo di uno dei numerosi inciampi – se ne scoprono sempre più – in cui è incorso il ministero preparando le famigerate domande a crocette per il concorso con cui selezionare i nuovi insegnanti di ruolo. Massimo Arcangeli, che insegna all’Università di Cagliari ed è un puntiglioso se non eroico giudice dell’utilizzo della lingua italiana, ha iniziato a segnalare i più inaccettabili strafalcioni nei quesiti (incluso un “qual’è” con l’apostrofo) fino a creare un corposo dossier che ora presenta all’attenzione di whom it may concern, unitamente a un appello a che il ministero riconosca “gli errori commessi nella formulazione di quesiti inaffidabili e provveda a ridefinire i punteggi dei candidati”.
Fermo restando che la fallibilità caratterizza la specie umana perfino fra i funzionari ministeriali – e che una percentuale comunque limitata di svarioni non basta a giustificare il basso livello di alcuni candidati – la stratificazione degli errori nei quesiti del concorso ci insegna molte cose riguardo alla scuola italiana. Possiamo catalogarli in quattro macrocategorie. Le risposte multiple espresse in termini ambigui e fuorvianti. Le risposte errate (o immaginarie, come il “parallelogramma esagonale” che ha fatto impazzire il web) indicate dal ministero come corrette. Poi le domande afferenti a contenuti non inclusi nel tesario o riferite a contesti desueti, come quella sull’Ocse rimasta ferma ai paesi membri del 2018.
Abbondano, infine, le domande che contengono errori materiali. È il caso di quella che richiede di riconoscere l’incipit del “Tristram Shandy” di Sterne, senza considerare come il passo citato si trovi in realtà verso la fine del libro. Arcangeli arguisce che parte dei quesiti incriminati è verosimilmente copincollata da inaffidabili fonti online, le stesse che gli studenti utilizzano per strappare un sei meno alle verifiche. È notevole che varie imprecisioni si concentrino in domande di nozionismo burocratico, come quelle sulla Raccomandazione del Consiglio Europeo del 22 maggio 2018 o su cosa sia il sillabo nell’insegnamento di una L2, per non parlare del caso se non so qual descrittore si trovi al punto B1.1 o B2.1 di non so che quadro normativo di riferimento.
L’idea che emerge è un concorso raffazzonato già nelle intenzioni, una macchina di selezione che perpetua e privilegia quegli stessi difetti di cui la scuola sembra alimentarsi insaziabilmente. Dare per buona una risposta come quella del parallelogramma esagonale significa non curarsi di cosa le parole significhino ma del solo fatto che vengano messe in fila. Imporre un programma e poi dimenticarsene al momento di porre le domande oppure utilizzare riferimenti scaduti significa non saper leggere il contesto, esageriamo, non accorgersi del mondo circostante. Fornire come alternative risposte ambigue significa credere che il concorso vada imbastito tirando a fregare, con domande trabocchetto, selezionando in base a furbizia o fortuna. Includere contenuti errati nelle domande significa non sapere di cosa si parla, riduce il processo concorsuale a mastodontica supercazzola: come diventa evidente quando si viene ai quesiti in materia di legislazione.
Tutto questo può essere sintetizzato nel dato di fatto che la scuola presti un’attenzione smodata alla forma – e a una forma artificiale, un gioco linguistico che esiste solo nei confini sociali della scuola stessa – a discapito della sostanza. Per questo il dossier e l’appello di Arcangeli, per quanto volenterosi, rischiano di risultare controproducenti, facendo passare l’idea che il problema sia solo di natura formale; tant’è vero che ieri il Senato si è affrettato a modificare il decreto reclutamento eliminando le risposte multiple dai futuri concorsi, mettendo una croce sopra le crocette e lasciando questo concorso a marcire nella propria irrimediabilità.
Il problema, invece, è sostanziale. Non è questione di come si voglia selezionare gli insegnanti di ruolo ma di perché, con quale obiettivo. Se le nuove generazioni di insegnanti devono ravvivare gli istituti in cui andranno a lavorare, conservare dell’entusiasmo e garantire un apporto specificamente ritagliato sulla propria individualità, non li si troverà di certo controllandone l’aderenza lessicale a formulette prestabilite o torchiandoli su futilità didattiche pseudoscientifiche. Bisogna assumerli con dei colloqui scuola per scuola, tarati sulle particolari esigenze, come accade con lo scouting dei professionisti nel mondo reale. Se invece devono essere immessi in una scuola burocratizzata e stantia, avvitata su formalismi didattici e progettualità tanto per, in cui non viene adeguatamente riconosciuto il merito né fra gli studenti né fra i docenti, be’, forse questo concorso pieno di errori è il modo migliore per mostrare loro cosa li aspetta.
generazione ansiosa