I danni che fa l'eliminazione della meritocrazia. Uno studio
Un basso standard di accesso all’Università non premia gli svantaggiati. Ecco perché sarebbe meglio puntare su un monitoraggio costante di intelligenza e capacità degli studenti
Laureati, se vi percorre l’atroce dubbio che studiare non sia servito a molto, potete consolarvi perché da ora i vostri sospetti sono suffragati dai numeri. Qualche giorno fa un corposo paper di Andrea Ichino, Aldo Rustichini e Giulio Zanella ha certificato che, dati alla mano, più persone frequentano l’università meno conviene frequentarla. L’analisi si basa su un caso di scuola a dir poco significativo, il progresso dell’istruzione post diploma nel Regno Unito a partire dal 1964; data non casuale, poiché l’anno prima il governo Macmillan aveva portato a compimento il Robbins report, destinato a trasformare in fenomeno di massa gli studi universitari storicamente destinati all’élite. Il principio del Robbins report era di dare l’opportunità di frequentare l’università a “tutti i giovani che ne avessero capacità e titoli”, con l’obiettivo di mettere a frutto “riserve di capacità bloccata, specie nelle fasce sociali più povere”.
L’analisi di Ichino, Rustichini e Zanella dimostra corposamente che la missione è fallita. I due dati più sconcertanti del paper riguardano il calo dell’intelligenza dei laureati e la diminuzione della forbice salariare rispetto ai non laureati. Il primo, urticante quantunque, è ottenuto attraverso analisi oggettive di dati coerenti, e porta alla scoperta che i laureati degli anni Novanta erano più intelligenti dei diplomati degli anni Sessanta ma meno dei laureati di quella generazione. Il secondo vede un incremento costante delle paghe orarie dei non laureati rispetto alla sostanziale stabilità di quelle dei coetanei laureati.
Sono necessarie due specificazioni. Il paragrafo qui sopra è un cubetto di ghiaccio rispetto all’iceberg di calcoli, grafici e citazioni che compone le settanta pagine del paper, quindi suona inevitabilmente sbrigativo; ma il paper non è inteso a preservare l’egemonia dell’élite, come potrebbe apparire a una lettura superficiale. Tutt’altro: l’analisi è incentrata sull’effettivo beneficio che la politica post-Robbins report ha avuto sul ceto a cui era rivolta e rispetto agli scopi che si prefiggeva. E’ dunque un fatto che, a medio termine, possiamo ritenere naufragata la strategia. Non sembra avere sbloccato chissà quali capacità e non ha garantito alle classi disagiate un significativo arricchimento.
Le motivazioni sono molteplici ma gli autori le sintetizzano nel fatto che, alla fine, l’allentamento dei criteri d’ingresso nelle università ha finito per coinvolgere soprattutto i figli meno talentuosi di famiglie abbienti anziché quelli promettenti di famiglie povere. Il presupposto del paper è infatti che esistano due indicatori che incidono sulla riuscita degli studi – l’intelligenza di cui si dispone e lo svantaggio da cui si parte – e tre politiche perequative: quella meritocratica, che favorisce gli intelligenti; quella progressista, che favorisce gli svantaggiati; e quella indiscriminata, o che favorisce tutti indistintamente. Su quest’ultima politica egualitaria si basa il principio fin troppo rimasticato del diritto allo studio.
Indovinate quale è stata perseguita nei decenni dopo il Robbins report? Per questo, scrive il paper, “ignorare il ruolo dell’intelligenza può essere un criterio lodevole in termini di equità ma non consegue effetti significativi in termini di capacità degli studenti a livello universitario”. Come soluzione propone invece un sistema meritocratico, non basato su voti di maturità sovente aleatori o sindacabili ma su un monitoraggio reiterato di intelligenza e capacità. E, se questo del Regno Unito anni Sessanta vi sembra un caso troppo distante e specifico per riguardarvi direttamente, provate a fare un esperimento mentale. Concentratevi e individuate quante istituzioni universitarie pratichino oggi una politica meritocratica, che premia intelligenza e impegno indipendentemente dal background economico, e quante invece per non svantaggiare nessuno si rassegnino a un indiscriminato lassismo nei criteri di selezione. Scegliete una nazione a caso – che so, per esempio, l’Italia.
generazione ansiosa