Diario di scuola
Il dentro o fuori alla fine dei corsi di recupero
La scelta se promuovere o meno gli studenti può essere decisiva per la vita dei ragazzi, anche più di quel che i professori possano pensare quando la prendono
E così anche quest’anno siamo quasi arrivati all’epilogo, si tratta solo di prendere le ultime decisioni, le più dolorose. Nella mia scuola sono stati attivati corsi di recupero nelle materie in cui alcuni studenti erano stati giudicati insufficienti negli scrutini di giugno, e poi ci sono stati gli esami per verificare se effettivamente il recupero c’è stato, se le lacune sono state colmate e si può andare felicemente avanti. Ma in effetti le lacune più o meno sono rimaste uguali, e ora si tratta di decidere che fare.
Le corna del dilemma sono appuntite e crudeli: promuovere o bocciare. Chiudere un occhio e sperare che le cose migliorino in futuro oppure affondare la lama senza pietà, mettendo lo studente di fronte alla verità della sua ignoranza? E qui inevitabilmente i professori si dividono in due categorie quasi inconciliabili: i morbidi e i duri, i caritatevoli e gli implacabili. Sono consigli di classe in cui si discute animatamene e spesso si arriva a un passo dal litigio. I duri hanno tantissime buone ragioni: “Se promuoviamo questo ragazzo che non sa niente, che non ha nemmeno approfittato della possibilità del recupero, allora faremo un danno a tutta la classe… Chi ha studiato sul serio, giorno dopo giorno, penserà che è stato uno sforzo inutile, se quella capra del suo compagno che non ha fatto un tubo per tutto l’anno viene comunque premiato”.
Di solito sono i professori più bravi a essere più intransigenti, sanno quanto hanno faticato per far conoscere e amare la loro materia, quanto hanno spinto affinché tutti imparassero qualcosa. E ora non vogliono sentire parole indulgenti, “perché il medico pietoso manda in cancrena la gamba, non fa il suo dovere se non amputa con decisione, chi promuove a casaccio collabora allo sfascio generale…”.
Io ascolto, annuisco, ma purtroppo faccio parte dell’altra categoria. Se si boccia uno studente di un liceo del centro, penso, quello starà malissimo, darà le testate al muro, griderà, ma poi il prossimo anno di sicuro sarà di nuovo in classe, più determinato e convinto, consapevole di aver fallito una volta e di non voler fallire una seconda. Alle spalle ha una famiglia che lo rimprovera ma lo sostiene, genitori delusi che però lo incitano a riprovarci con più energia. Ma lo studente di Tor Bella Monaca, di Torre Angela, della Borghesiana che frequenta una scuoletta professionale, una volta respinto dove andrà a finire? Che alternative gli si presentano? Molto spesso sparisce totalmente dai radar, viene invitato a iscriversi di nuovo, ma nessuno risponde al telefono o alle mail: diventa un fantasma, uno dei tanti ragazzi che abbandonano gli studi e restano a dormire fino alle due di pomeriggio, e poi giù in piazzetta, tra disperati e disgraziati. Per lui, anche se forse non lo sa, la scuola è davvero l’ultima spiaggia, un posto dove essere trattato con rispetto, con affetto, dove con una fatica estrema può forse raggiungere l’obiettivo di un diploma, una mezza speranza di salvezza. E allora dico: “Diamogli un’altra possibilità, facciamogli un piccolo regalo, teniamolo ancora tra di noi, tra professori che si occupano di lui e coetanei che studiano… Non gli sbattiamo la porta sul muso, potrebbe essere un rifiuto definitivo, da cui non si riprenderà più, già la vita gli ha detto di no tante volte…”.
So che le mie motivazioni, dal punto di vista di una didattica seria, sono deboli, tenute insieme dallo sputo del sentimentalismo, capisco che la selezione è un compito al quale un bravo professore non può sottrarsi, che il rischio è di creare un mondo di furbetti, di debosciati, di inconsapevoli, però l’idea di sbattere un ragazzo in mezzo alla strada mi fa paura. In fondo, dico, ho visto tante volte studenti somarissimi che di colpo si sono ripresi, perché hanno capito quanto la scuola è stata loro vicina, hanno capito che qualcuno comunque gli vuole bene. E il bene produce degli effetti positivi, dico senza esserne completamente sicuro. E così si discute, ci si contrappone, e il giudizio passa quasi in secondo piano rispetto a una visione complessiva dell’esistenza. E alla fine si vota: promosso o bocciato? Dentro o fuori? Clemenza o severità? E si contano i voti: pari. E si ricomincia da capo a discutere, nel caldo feroce della scuola, dell’estate, della vita.