Foto di Olycom, gli studenti italiani si organizzano 

contraddizioni storiche

Quando il merito è diventato un tabù. Il ruolo decisivo della sinistra

Giovanni Belardelli

Fu il Pci a spingere la campagna sull'impegno a cominciare dall'esempio di Gramsci e dei Quaderni del carcere. Poi venne il sessantotto, le rivendicazioni, don milani e il voltafaccia degli ambienti dell'area progressista del paese

Ma quand’è che ogni riferimento al merito nell’insegnamento e nello studio, che dovrebbe essere poco più di un’ovvietà, è invece diventato un tabù? Quand’è che la parola si è trasformata anzi, per una parte importante del nostro paese, in un sinonimo di chissà quale feroce volontà discriminatoria? Quand’è che il merito è diventato un concetto reazionario, come in tanti si sono affrettati a dichiarare dopo la nuova intitolazione del ministero dell’Istruzione? C’è un momento preciso in cui questo è avvenuto, e cioè in relazione alla battaglia contro la “scuola di classe” condotta dai movimenti di contestazione studentesca degli anni 60. A partire da allora la sacrosanta critica a una scuola che aveva effettivamente tratti di discriminazione e selezione su base sociale si trasformò per molti – un pezzo importante del ceto intellettuale italiano nei decenni futuri – nella convinzione che valutare merito e capacità di qualcuno equivalga a discriminarlo. Tutto questo è, o dovrebbe essere, noto. Forse è meno noto che, in questo radicale cambiamento culturale, ha avuto un ruolo decisivo quel che accadde a sinistra.

 

Era stato a lungo il Pci a farsi portatore di un’idea dello studio fondata sul merito e lo sforzo individuali come strumenti di affermazione personale e di emancipazione politico-sociale. Negli anni del regime fascista i confinati comunisti avevano organizzato delle vere e proprie scuole: uno dei primi libri sulla politica economica del fascismo – Il capitale finanziario in Italia di Pietro Grifone (Einaudi) – era nato dalle dispense per i confinati politici di Ventotene. Dopo il 1945 il partito si richiamava continuamente a un uomo, Antonio Gramsci, che, recluso nel carcere fascista e in condizioni di salute difficilissime, si era dedicato a uno studio “matto e disperatissimo”. Il richiamo ai Quaderni del carcere rappresentava uno dei principali veicoli dell’egemonia che il partito cercava di stabilire sulla cultura progressista. Il tipico dirigente comunista degli anni 50 e 60 amava presentarsi come una persona dedita a studi – sulla storia italiana, sul pensiero di Gramsci o di Lenin, sulla questione meridionale ecc. –  che poi consegnava a lunghi (in genere noiosissimi) saggi per il settimanale del partito Rinascita.

 

Giorgio Amendola non si stancava di indirizzare ai giovani il monito che lo studio è anzitutto impegno e fatica individuali. Ebbene, tutto questo venne spazzato via dal Sessantotto. 

 
Che proprio allora avvenisse la svolta è ben testimoniato da un episodio poco noto, narrato molti anni fa da Ernesto Galli della Loggia rievocando l’assemblea che nel 1966 concluse l’occupazione dell’università di Roma, come protesta per la morte dello studente Paolo Rossi durante un’aggressione neofascista. Chiudendo quell’assemblea – ha ricordato lo storico – Lucio Lombardo Radice, matematico e dirigente comunista, “poté rivendicare a meritorio credito politico degli occupanti i loro libretti pieni di trenta e lode. E la rivendicazione fu accolta da un uragano di applausi: dalle stesse persone che, per le stesse parole, due anni più tardi lo avrebbero linciato” (suppl. a Panorama, 24 gennaio 1988).

 

A determinare il nuovo clima concorse, in Italia, la lettura di un libro uscito nel 1967 cui arrise subito un enorme successo (secondo l’Espresso fu il più venduto in quell’anno per la saggistica insieme a un testo di Herbert Marcuse) e che ebbe l’effetto di un terremoto: Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani. La feroce polemica di don Milani contro la scuola del tempo venne letta – in parte anche distorcendola – come la dimostrazione che ogni valutazione sulla base del merito costituiva null’altro che lo strumento per perpetuare le differenze sociali. 
Dare a uno studente il voto che merita cominciò ad apparire intollerabile a molti giovani che durante le agitazioni del ’68 chiesero e ottennero, soprattutto all’università, esami (e voto) di gruppo, interrogazioni su temi scelti dallo studente, divieto di bocciare così da poter sostenere l’esame all’appello immediatamente successivo. Per quieto vivere o per la paura di apparire “reazionari”, molti professori accoglievano tali richieste. Ma questi furono solo gli aspetti più superficiali di un cambiamento profondo nella cultura del paese; e fu un cambiamento che coincise con la crisi irreversibile della vecchia “sinistra del merito”. Da allora, un’ampia parte del corpo docente delle scuole trovò problematico valutare i propri studenti secondo lo sforzo e i risultati di ciascuno, convincendosi sempre più che la scuola non ha come suo primo compito quello di fornire conoscenze, attività che molti esperti ormai definiscono spregiativamente come “didattica trasmissiva”. 

 

La scuola, alla luce della nuova pedagogia mainstream, deve non solo preoccuparsi di includere e accogliere lo studente proveniente da contesti più o meno disagiati (questo in fondo sarebbe ovvio), ma deve farne il proprio principale obiettivo. Un’inclusione e un’accoglienza che si traducono spesso in una facilitazione degli studi, piuttosto che nell’aiutare chi proviene da condizioni sfavorite a ottenere le stesse conoscenze dei privilegiati Pierini (come li aveva definiti don Milani). Quelle conoscenze, cioè, che ragazzi e ragazze delle classi medio-superiori possono procurarsi anche per altra via dato l’ambiente al quale appartengono; ma che i più svantaggiati possono ottenere solo da una scuola che valuti il loro merito. O meglio potrebbero ottenere, se molte scuole, grazie anche a una sinistra diventata meritofobica, a far questo non avessero rinunciato da tempo. 

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