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Perché competitività e meritocrazia sono ancora al centro della sfida educativa

Serena Sileoni e Carlo Stagnaro

Dall'inganno sul valore dei voti all'accessibilità del sistema educativo. Pensare che il problema sia il sistema merito-centrico e competitivo vuol dire fallire l’obiettivo di fare crescere i giovani. Si può fare di più per promuovere l’accesso allo studio, ma è importante chiedersi come le risorse debbano essere allocate

I giovani, ha detto Emma Ruzzon, la studentessa che ha inaugurato l’anno accademico a Padova, hanno diritto a rallentare rispetto a spinte emulative verso modelli insostenibili di successo; e hanno il diritto a usufruire per davvero del sostegno allo studio. Si tratta di due pretese difficili da non condividere, ma c’è qualcosa di quel discorso che non torna.

 
Alla base della sofferenza di molti giovani ci sarebbe il “sistema meritocentrico e competitivo”. Anche chi non è più giovane, come chi scrive, si è accorto di un disagio che può venire dal confrontarsi con modelli estremizzati di successo. Avere davanti tutte le opzioni immaginabili è qualcosa di straordinario, ma anche vertiginoso. Peraltro, l’esperienza della pandemia ha significato per gli studenti abituarsi a confrontarsi in maniera strabica con la solitudine da un lato, e con l’infinita virtualità dall’altro. Tuttavia, questo ha poco a che vedere con la valutazione del merito e con la competizione.

 
La scuola e l’università sono agenti valutatori perché la valutazione è un modo di imparare a conoscersi attraverso il giudizio degli altri, e perché il riconoscimento dei meriti e dell’impegno è uno sprone a migliorare. Negli anni, casomai, il sistema dell’educazione è diventato sempre meno competitivo, appiattito su logiche che non mettono al centro gli studenti. Non si spiegherebbe altrimenti perché sono sotto la media nei test Pisa per quanto riguarda la comprensione di un testo nella lingua madre.

 
Se non siamo in grado di ascoltarli, il problema è più radicale. Pensare che sia dovuto al sistema merito-centrico e competitivo vuol dire fallire l’obiettivo di farli crescere, di far comprendere loro che valutarli non vuol dire non comprenderli, ma aiutarli ad attrezzarsi per la vita.

  
Il danno che noi stiamo facendo, casomai, è il contrario di quello evocato: è nell’ingannarli circa il reale valore di quei voti e delle valutazioni, persino circa il valore dei programmi didattici e curriculari che offriamo; è nel non far capire loro che la sfida educativa è un percorso in cui i giudizi sono tappe di un cammino fatto di sconfitte, accelerazioni, cadute e maratone.

 
Un lavoro coordinato dal premio Nobel per l’economia Edmund Phelps ha mostrato che il rallentamento della capacità innovativa in Occidente è legato alla crisi dei valori moderni dell’individualismo, autostima, volontà di esprimere sé stessi. I giovani non sono esposti a un eccesso di individualismo, ma al suo declino; e questo affonda le radici anche nel modo in cui la scuola è organizzata e nei modelli culturali (e persino nelle letture) che propone.

   
Naturalmente, perché il sistema educativo possa sostenere i giovani nella loro evoluzione, esso deve essere accessibile. La studentessa, a tal proposito, ha denunciato che lo studio è un diritto negato: poche risorse e costi sproporzionati.

  
L’università, in Italia, costa più che altrove: la spesa media annua è di circa 1.500 euro, mentre in altri venti stati Ue si spende meno di mille euro (sebbene molti di essi abbiano redditi medi assai inferiori ai nostri). Anche la quota di studenti che ricevono borse di studio (il 14 per cento) è relativamente bassa. Dunque si può (e si deve) fare di più per promuovere l’accesso allo studio. Ma prima di quante, è importante chiedersi come le risorse debbano essere allocate. Francesco Giavazzi e altri hanno più volte sottolineato che l’università è sussidiata dalle tasse che pagano tutti, mentre vi accedono relativamente pochi. La sua eventuale gratuità finirebbe in sostanza per determinare un trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi. 

   
Oltre tutto, la probabilità di affrontare un percorso universitario è maggiore per chi va al liceo rispetto a chi è andato in una scuola tecnica; ma, come hanno mostrato Marco Leonardi e Marco Paccagnella, la probabilità di andare al liceo è maggiore per i giovani provenienti da famiglie ad alto reddito. Per non dire del ruolo marginale che nel nostro ordinamento hanno gli Iit e dello stigma con cui sono marchiate le scuole tecniche. Quindi la faglia tra (figli dei) ricchi e poveri nasce prima e deriva da fattori culturali più che reddituali.

   
L’intervento, allora, va focalizzato sul miglioramento del sistema delle borse di studio, non sulla riduzione delle tasse, e a una maggiore capacità di offrire loro una formazione valida per il loro futuro. Per affrontare il problema dovremmo mettere a fuoco le esigenze degli studenti e aiutarli a trovare il percorso più adatto. Non puntare, come abbiamo fatto, sulla proliferazione delle sedi secondarie e dei corsi di laurea a misura di docente.