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Modificare i programmi a favore del passato recente? Perché non è una buona idea
La petizione che chiede di dedicare più spazio alla storia contemporanea ha le sue ragioni, ma non tiene conto di alcuni fattori
Sta circolando in rete una petizione che chiede al ministro dell’Istruzione e del merito una modifica del programma di storia delle superiori, così da destinare interamente l’ultimo anno allo studio degli avvenimenti che vanno dal 1945 al principio del XXI secolo. Lo scopo è quello di contrastare la diffusa ignoranza del passato più recente propria delle nuove generazioni, che spesso non sanno nulla di ciò che è avvenuto negli ultimi decenni. Se nel 1996 l’allora ministro Luigi Berlinguer riservò all’anno conclusivo delle superiori tutto il Novecento, ora si domanda di proseguire ulteriormente sulla via di una storia sempre più contemporanea. Sembrerebbe da condividere senz’altro: chi mai potrebbe approvare che dei giovani, terminato il loro ciclo di studi, non abbiano mai sentito parlare dell’assassinio di Aldo Moro o ignorino la caduta del Muro di Berlino? Temo però che si tratti di una proposta sbagliata.
Tralascio obiezioni “minori” ma che un certo peso lo hanno. In particolare, si è osservato che sui fatti più vicini a noi spesso non esistono ricostruzioni universalmente accettate nei loro aspetti essenziali, sicché vi è il rischio di un insegnamento condizionato dalle posizioni politico-ideologiche del docente. Non sono timori infondati, in un paese come il nostro, nel quale il complottismo e la dietrologia hanno larga circolazione, nel quale a volte gli stessi studiosi di storia contemporanea sono molto “militanti”.
Comunque il motivo per cui la proposta di riservare l’ultimo anno di scuola alla storia “molto contemporanea” va giudicata negativamente è soprattutto un altro. Una misura del genere rischia di generare un “effetto paradosso”: nata dal desiderio di alimentare fra i giovani una maggior conoscenza della storia più recente, finirebbe in realtà con l’accentuare la crisi della storia, la perdita della percezione stessa del passato che caratterizza le democrazie contemporanee. Questo in realtà è già accaduto con la decisione di dedicare l’ultimo anno al Novecento visto che, a stare a qualche ricerca in merito, la conoscenza della storia contemporanea sarebbe oggi minore proprio in chi ha studiato con i programmi riformati da Berlinguer. C’è chi sostiene che quella riforma non è stata veramente applicata, visto che le ultime classi non possono concentrarsi sul Novecento avendo un “arretrato” ottocentesco ancora da smaltire. E’ possibile, ma il problema vero, il vero difetto della riforma Berlinguer come della proposta odierna che ne vorrebbe l’accentuazione, sta nel presupposto sbagliato di entrambe: l’assunto di una maggiore rilevanza esplicativa di ciò che è vicino o vicinissimo nel tempo. In realtà, se il presente è inevitabilmente condizionato dal passato, non è altrettanto vero che l’influenza maggiore la abbia la storia più vicina. Nel presente, osservò Paolo Prodi, scopriamo “strati che sono cronologicamente vicini e strati lontani”: “noi viviamo contemporaneamente una realtà greca, biblica, romana, luterana, illuministica, romantica, ecc. senza la quale non possiamo capire nulla dei grandi avvenimenti e delle tragedie del XX secolo”; e anche del XXI – Prodi scriveva nel 2001.
A ben vedere l’idea di una maggior valenza esplicativa degli ultimi decenni è il prodotto di quello schiacciamento della storia sull’attualità, di quella dittatura del presente in cui siamo immersi. Attraverso internet si è affermata una dimensione esperienziale in cui ogni distinzione temporale si annulla, ogni fatto viene gettato nella fornace dell’attualità e diventa contemporaneo perché “esiste” contemporaneamente a tutti gli altri nel tempo annullato del web. Siamo di fronte a una trasformazione antropologico-cognitiva che ci fa assomigliare al gruppo di pecore descritto da Nietzsche: “Esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piolo dell’istante, e perciò né triste né tediato”.
Dopodiché, certo, è vero che molti giovani nulla sanno di fatti fondamentali della storia contemporanea (e per la verità non solo di questa), ma bisognerebbe cercare altrove le cause. Bisognerebbe chiedersi, ad esempio, quanto l’ignoranza storica diffusa non sia il prodotto, più che dei programmi, di quella didattica delle competenze che, affermatasi decenni fa nel mondo anglosassone, è stata poi rimasticata e fatta propria dal nostro ministero dell’Istruzione producendo una distorsione pedagogistica dell’insegnamento in virtù della quale come si insegna è più importante di cosa si insegna. Su questa via c’è chi sollecita persino ad abbandonare la didattica “trasmissiva”, legata cioè alle tradizionali lezioni dell’insegnante e alle aborrite “nozioni”. Forse la diffusa ignoranza dei fatti storici recenti andrebbe imputata anzitutto a chi ha scritto e approvato simili sciocchezze.