il nuovo anno scolastico
Nuova scuola o meno scuola?
Inizia (nel silenzio) l’anno della riforma digitale targata Pnrr. Una moderna idea di istruzione. Cosa si perderà?
Vogliamo ripeterci un’altra volta ancora perché nessuno, tranne gli addetti ai lavori ovvero i lavoratori del settore, della scuola non vuole saperne nulla? Nemmeno gli studenti, che scappano con un tasso di abbandono tra i più alti d’Europa (media 16 per cento e addirittura 23 a Napoli, dove un diciassettenne la scorsa settimana ha ucciso per strada il giovane musicista Giogiò); nemmeno i genitori, seppure minacciati di prigione se i pargoli non vanno in classe (rimedio già fallimentare ai tempi di Geppetto)? Se vogliamo ripeterci ancora una volta il perché, ecco un esempio: “L’Autorità di gestione del Programma Operativo Nazionale (il mitico “Pon”, ndr) con una nota personalizzata inviata alle scuole che sono state autorizzate ad avviare i progetti relativi ai ‘Laboratori green, sostenibili e innovativi per le scuole del secondo ciclo’ (nota 22.550 del 12 aprile 2022 e nota 22.867 del 13 aprile 2022)…” eccetera. E’ l’incipit di una delle miriadi di comunicazioni in burocratese stretto che intasano il “Gpu”, il sistema di “Gestione Unitaria del Programma” attraverso cui prende forma digitale il (sempre mitico) Pon. A inizio estate, l’Autorità di gestione comunicava in quel modo di aver accordato una proroga per la presentazione dei progetti “green, sostenibili e innovativi”. Secondo voi, a un insegnante che pure abbia a cuore il suo lavoro, e non voglia perdere tempo con la modulistica e l’astrazione funzionale, a una famiglia che in casa non possiede un libro, o a uno dei diecimila (diecimila!) minori che a Catania a scuola non ci vanno, può interessare qualcosa del Pon e dei laboratori sostenibili? Ci trovano una risposta al loro bisogno? Giriamo volentieri la domanda al “Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione” del Mim, nuovo acronimo del vecchio Viale Trastevere.
Una nuova fase di programmi, moduli, portfolio, gestione burocratica che sottrae spazio a ciò che della scuola dovrebbe essere l’essenza
Fine dell’esempio, ma potrebbero essere centinaia. Mentre la società italiana perde pezzi vivi di scuola, mentre la scuola perde per strada i suoi allievi, mentre il governo “delle destre” cambia nome al ministero per riportare in auge il “Merito”, minacciando severità deamicisiane, la scuola italiana procede spedita, a rotoli, verso una nuova fase di involuzione fatta di programmi, di moduli, di portfolio, di gestione burocratica (e anche di soldi buttati a casaccio) che sottraggono sempre più tempo e spazio a quello che della scuola dovrebbe essere l’essenza: l’insegnamento, lo studio, il rapporto insegnante-allievi, la loro crescita culturale e umana. Cose senza le quali anche il nuovo mito formativo, “il raccordo col mondo del lavoro” rischia di rimanere per l’appunto un mito, una chimera.
In qualsiasi collegio docenti di qualsiasi scuola del regno, l’inizio dell’anno è ormai una ricorsa a ottemperare al Pon, ai Pof, ai background e ai framework della “Next Generation Classroom” e dei “Next Generation Lab”. Quest’anno, in particolare, a come mettere in pratica il rivoluzionario “ddl Orientamento”. Ma chi siano, cosa facciano, cosa desiderino le ragazze e i ragazzi italiani, dentro a quelle “classroom” e in quei “lab”, sembra interessi sempre meno: la performance della futura scuola consiste nel “profilare”, “orientare” e passare poi la palla all’università o alle aziende: se la vedano loro, il “materiale umano” profilato dalla scuola questo era. Per riassumerla, molto meglio e in breve, col grande prof. Marco Lodoli che ne scrisse un anno fa sul Foglio, nell’ora della pensione: “Se la scuola prima era essenzialmente ‘relazione’, rapporto intellettuale e sentimentale tra docente e studente, e tutto si giocava in quella disponibilità reciproca, in quella fiducia, ora l’istruzione ha imboccato una strada di tipo anglosassone, che grosso modo si basa su questo principio: basta con la sedicente qualità educativa, avanti con la verifica oggettiva delle conoscenze e delle competenze”. E’ più che ovvio che la scuola non possa rimanere ferma ai tempi del Maestro Perboni, e due anni di Dad e due di Pnrr basterebbero a spiegarlo: la scuola deve trasformarsi per non perdersi. Il problema è come.
Investire nella digitalizzazione di scuole a rischio sismico dove non funzionano i bagni è mettere il carro davanti ai buoi
Quest’anno, in qualsiasi collegio docenti di qualsiasi scuola del regno, si comincia con la novità di una riforma destinata a modificare il corso delle cose, ma che “riforma” propriamente non è: infatti non è stata votata dal Parlamento nessuna legge per riformare la scuola. E’ invece una cosa che, sintetizzando, si chiama “Piano Scuola 4.0”. E’ il piano previsto dal Pnrr (Missione 4: istruzione e ricerca) come “strumento di sintesi e accompagnamento all’attuazione delle relative linee di investimento e intende fornire un supporto alle azioni che saranno realizzate dalle istituzioni scolastiche nel rispetto della propria autonomia didattica, gestionale e organizzativa”. Così sta scritto in cima al decreto 161 del giugno 2022 (ve li ricordate i tempi in cui sulla riforma della scuola in Parlamento ci si scannava per anni?) firmato dal ministro dell’Istruzione: che allora era Patrizio Bianchi. Un investimento, tra hardware, software (digitalizzazione) e innovazioni didattiche da 2,1 miliardi di euro. La “Scuola 4.0” ha lo scopo di “trasformare le classi tradizionali in ambienti innovativi di apprendimento e la creazione di laboratori per le professioni digitali del futuro”, e inoltre “con un’altra specifica linea di investimento, promuovere un ampio programma di formazione alla transizione digitale di tutto il personale scolastico”. Bene, certamente. Può essere utile riassumere i punti base dell’ampio progetto, che lasciati ai titoli dei ddl (e dei giornali) risultano vaghi. Un primo punto della Scuola 4.0 è la “trasformazione fisica” dell’ambiente scolastico. Partendo dall’abc del cablaggio e della connettività di tutti gli istituti, obiettivo complicato. Ma lo scopo vero è una rivoluzione didattica.
Mai più scuola con la cattedra e la lavagna, ma ambienti di lavoro digitalizzati. Il piano parla di centomila aule, quasi tre quarti dei soldi del Pnrr finiranno in device personalizzati, schermi, connessioni, “lab” virtuali. Lo scorso anno l’indicazione data a tutti gli istituti era di acquistare il massimo possibile di attrezzature, in modo da mettere a terra i finanziamenti. Se si osservano più da vicino le situazioni – in un paese in cui i divari tra regione e regioni restano enormi – il rischio dell’assalto alla diligenza fa capolino. Investire nella digitalizzazione di scuole in cui non funzionano i bagni e c’è più rischio sismico che non di un blackout della rete, è mettere il carro davanti ai buoi. Ai tempi della Dad, la ministra Azzolina dovette ammettere, dopo mesi di caos, che quasi un terzo delle scuole non era dotato di Internet.
Poi si arriva al tipo di istruzione da somministrare. E ancora a fare da pivot è l’idea del nuovo mondo digitale. La costruzione delle “classroom” è propedeutica alla formazione di “professioni digitali del futuro”. Nei “Netx generation lab” si forniranno “le competenze digitali specifiche nei diversi ambiti tecnologici avanzati, trasversali ai settori economici, in un contesto di attività autentiche e di effettiva simulazione dei luoghi, degli strumenti e dei processi legati alle nuove professioni”. Tutte scelte condivisibili. Che però rischiano di passare sopra la testa del “tempo scuola” reale che, come ha insegnato drammaticamente il Covid è fatto anche di condivisione personale, di maturazioni non programmabili con un portfolio, di materie – non solo le umanistiche – che vanno interiorizzate con la lentezza anche psicologica necessaria. La vera domanda che nessuno si fa, tantomeno tra gli spaesati insegnanti, è come dovrà cambiare davvero la scuola in questo repentino passaggio imposto via Pnrr – ma com’è che in Italia le riforme si fanno solo sotto vincolo esterno? – e che consiste, all’osso della questione educativa, in una esasperazione della programmazione, nella costruzione di un “cittadino modello” orientato al mondo del lavoro. Che non sempre significa anche una persona matura, libera: i dati sul disagio scolastico e post-scolastico sono a disposizione di tutti.
Il Piano Scuola 4.0 varato da Bianchi e il ddl Orientamento da Valditara. L’Educazione civica, 33 ore sottratte all’asfittica programmazione
Quest’anno, ed è forse la novità più grossa per il futuro dei giovani, entra di prepotenza nelle scuole quanto previsto dal “ddl Orientamento” (n. 328 dicembre 2022), e stavolta a firmarlo è stato il ministro Giuseppe Valditara. Anche l’orientamento fa parte delle misure del Pnrr, “riforme strategiche senza le quali anche la parte legata agli investimenti economici avrebbe rischiato di essere messa in discussione”. Da tre anni è partita la sperimentazione (ora andrà “a regime”) dell’insegnamento trasversale di Educazione civica: 33 ore annuali (una alla settimana) che hanno imposto ai docenti di ogni materia di creare “percorsi” che comprendano i tre mantra delle “linee guida”: la Costituzione, lo Sviluppo sostenibile e la Cittadinanza digitale. Trentatré ore senza nessun contenuto specifico, dal primo anno all’ultimo, sottratte alla già asfittica programmazione, per essere edotti di questioni ecologiche, di cittadinanza, di rispetto e inclusione e quant’altro la creatività dei docenti possa scovare. L’impressione che serva a creare “cittadini che non disturbino”, più che stimolare la ricerca del merito e del saperi, non è peregrina.
Ed ecco poi la grande novità, nelle superiori, l’arrivo del “docente orientatore” e del “docente tutor”. Fin al primo anno. Non sono pochi 14 anni per “profilare” il futuro curricolare o professionale di ragazzi e ragazze? Notare che il “ddl orientamento” è nato, prima di Valditara, dal coté buro-pedagogico del ministero, stesso brodo di coltura dei tanti che in questi giorni si affannano a spiegare che un quattordicenne armato non può essere perseguibile. Lo scopo, comunque, è aiutare nella scelta precoce della futura professione, e preparare curricula che potranno essere differenziati in base al competenze. E da dove sbucano, questi orientatori e tutor? Semplice: quest’estate, ampiamente sollecitati, docenti di ogni materia potevano offrirsi per questa nuova funzione, dietro sparagnino compenso (duemila euro lordi l’anno). E auto-caricarsi, oltre al proprio, di un nuovo lavoro che sarà, più che da insegnanti, da burocrati: profili, tabelle, valutazioni. Ragionando in astratto: tutte cose utili. Ma ragionando nel concreto, nella carne e nelle vite di ragazzi, prof., famiglie: la scuola è solo questo?
Governo e ministro chiedono un ritorno all’autorevolezza del docente. Ma il Piano 4.0 sembra andare in una direzione opposta
La cosa bizzarra è che questa riforma decolla mentre un governo e un ministro, a parole, chiedono un ritorno, un po’ passatista, al merito, alla qualità, allo studio sui libri e all’autorevolezza della figura docente: l’adulto in cattedra. Al recente Meeting di Rimini, Valditara ha citato La Pira: “Al centro ci sono studenti e insegnanti (e la società civile), il ministero è al loro servizio”. Ma nel frattempo, il “piano” 4.0 (varato da Bianchi, l’elaborazione è frutto della onnipotente struttura tecnica del ministero) sembra andare in una direzione opposta, in cui gli insegnanti sono sempre più “funzione docente” e gli studenti tabula rasa da riempire.
L’aspetto tragico è che di tutto questo non importa nulla a nessuno. A partire dalla politica. Anzi no, ci sono qua e là grida guerra, che si perdono nel nulla. Da sinistra, ovviamente: perché il ministro è di destra e perché, peggio ancora, “di destra” è il complessivo piano di trasformazione sociale della scuola, roba da finanza globale e sotterfugi del Pnrr. In estate ha fatto rumore, sui siti per prof., una accorata “Lettera agli insegnanti” di Romano Luperini, insigne italianista e mai pentito militante comunista: “E’ in corso un tentativo di imporre contenuti assurdi e impropri… di subordinare sempre più la scuola alle leggi del mercato e ai bisogni dell’economia… Si sta assistendo insomma a un vero a proprio attacco alla scuola pubblica e alla sua funzione formativa”. Un po’ un Landini della letteratura: “La Costituzione vi chiede di formare dei cittadini, non dei consumatori o dei produttori”, scrive. Ma la constatazione che nella scuola del futuro avranno sempre meno valore i “contenuti”, soprattutto quelli umanistici, quelli che pertengono alla “formazione”, ergo alla “democrazia”, è tutt’altro che sballata. Oppure un intervento più strutturato su MicroMega, ripreso integralmente dalla rivista Tecnica della scuola, come dire la Pravda del mondo docente, in cui si legge: “Nel silenzio pressoché totale di istituzioni, sindacati e organi di informazione sta per entrare in vigore l’ennesima, distruttiva riforma della Scuola italiana, con un impatto superiore persino alla ‘Buona Scuola’ di Renzi”. Una mostruosità, scrivono, “pianificata dal governo Draghi su mandato europeo e implementata in perfetta continuità dal governo Meloni, fa parte a tutti gli effetti del Pnrr… un colossale piano di indebitamento delle Nazioni europee obbligate a trasformare le loro istituzioni, economie e società in direzione delle politiche sanitarie, alimentari, energetiche, digitali e, non ultime, anche belliche, decise dalle lobby d’Oltreoceano che detengono i brevetti delle relative tecnologie. Un volano per gettare le basi della nuova società postdemocratica”. Il patriarca Kirill non avrebbe detto meglio. Il finale dell’articolo è emblematico del tass ideologico: “Ci chiediamo: valeva la pena percorrere tutto il cerchio dell’ideale democratico per tornare al MinCulPop, ai Balilla e ai Lupetti da cui proveniamo? Allora vogliamo pure i Colonnelli!”.
Torniamo al punto di partenza: vogliamo ripeterci un’altra volta perché della scuola nessuno vuole saperne nulla? Perché da una parte c’è un pluridecennale tentativo di perseguire riforme tecnocratiche e poco condivise, provando a scimmiottare quel che accade all’estero. Dall’altra c’è un corpaccione solido e pesante – la gran parte di una classe docente attempata e politicizzata, quella che, letteralmente, pensa che il Consiglio di classe sia una sorta di soviet che detiene “la prerogativa di condurre in modo concertato il progetto formativo”, più il sindacato e l’accademia dei pedagogisti – tutti votati all’immobilismo o alla ripetizione di schemi elaborati (e falliti) negli anni Settanta. In mezzo, la voragine in cui la voglia di scuola precipita, per studenti e insegnanti, e in cui spariscono ogni anno migliaia di abbandonati e dispersi. A chi devono servire, le riforme? Al mercato del lavoro, alla programmazione di cittadini che non disturbino, alla trasformazione degli insegnanti da protagonisti di un “rapporto intellettuale e sentimentale” in profilatori digitali? Le riforme devono servire per recuperare l’entusiasmo di chi la scuola la fa, per recuperare chi ne viene escluso, per stimolare verso il migliore apprendimento chi ha la possibilità di farlo. Una scuola che non abbia solo il problema di spendere i soldi del Pnrr.
La scorsa settimana, in Gran Bretagna, la ministra dell’Educazione è stata travolta dalle polemiche perché “non si era accorta” che 32 milioni di sterline del suo budget erano state destinate al rifacimento della sua sede ministeriale, mentre molte scuole del regno cadono a pezzi. Bastano i muri? Basta rifornire tutti di computer e device? Buon anno, scuola.
generazione ansiosa