Senza parole
“Prof., non so come dire”. Perché la scuola deve fornire ai giovani un linguaggio
Il valore inestimabile del patrimonio lessicale, per comprendere e conoscere sé stessi, nel periodo in cui il processo di impoverimento del linguaggio è spaventosamente accelerato dall’informalità delle chat e dai ridottissimi registri linguistici ammessi nella rete
Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile”, scriveva Italo Calvino nel 1985. Quasi quarant’anni dopo, nel tempo dell’innalzamento parossistico dell’immagine, il processo di impoverimento del linguaggio – spaventosamente accelerato dallo sfrenato utilizzo degli smartphone, dall’informalità delle chat, dai ridottissimi registri linguistici ammessi nella rete – appare agli occhi dei contemporanei drammaticamente avanzato, minacciando non solo le generazioni più giovani – nelle quali il dominio della parola attraversa una crisi forse irreversibile – ma segnando più generalmente la società tutta. Lo stesso Calvino, del resto, con la nota ironia non si sottraeva alla propria responsabilità, aggiungendo: “Non si creda che a questa mia reazione corrisponda una intolleranza per il prossimo: il fastidio maggiore lo provo sentendo parlare me stesso”. Tema assai discusso è quello relativo al patrimonio lessicale che ciascuno possiede e se è arduo stabilire quante effettivamente siano le parole che il vocabolario di base di una persona può annoverare, non è d’altra parte difficile constatare – soprattutto per chi vi si imbatte ogni mattina – la progressiva, apparentemente inarrestabile riduzione degli strumenti espressivi dei giovani.
“Prof, non so come dire”, mi confidò un giorno uno studente durante un’interrogazione. L’ammissione fu illuminante. Mi provocò a pormi più di un quesito circa la difficoltà nel cogliere con esattezza le parole, introducendo la grande questione del rapporto che vi è tra queste ed il pensiero. Quel mistero, cioè, per cui il pensiero – mentre genera la parola – al contempo viene da essa definito, precisato, descritto.
Quanto e in che modo, oggi, la scuola riesce a contrastare il progressivo immiserimento del linguaggio che è sotto gli occhi di tutti, per cui un lessico generico e vago indebolisce e spesso sbaraglia quello più pertinente? Quanto l’insegnamento può osteggiare quella reiterata, altezzosa prevalenza di un parlare neghittoso e corrivo, capace di appiattire drasticamente la dimensione comunicativa? L’inesorabile divario tra le parole che vengono pronunciate e il pensiero ad esse sotteso rende la comunicazione approssimativa ed incerta e persino lo studio della grammatica – a cui nella scuola è dedicato uno spazio piuttosto ampio – sembra rimanere talora indifferente al problema, per via della consuetudine a relegare la riflessione metalinguistica ad un ambito separato da quello del parlare e dello scrivere. Già lo rilevava, un secolo fa, Bruno Migliorini, constatando che “i metodi grammaticali che ancor oggi imperano nelle scuole non servono affatto ad approfondire la conoscenza della lingua negli alunni, ma solo ad annoiarli terribilmente”, e aggiungeva: “se invece che imbottire di regole più o meno artificiose e astratte la testa degli scolari, si fortificasse con adatti esercizi la loro capacità di espressione, tutta la loro educazione ne avrebbe grande vantaggio”.
E’, quello sulle parole, lavoro di bellezza senza eguali; lavoro a tal punto appassionante che persino gli studenti più restii all’impegno scolastico – dimenticando la noia troppo spesso compagna delle loro mattinate sui banchi – mostrano lo sguardo accendersi d’un lampo di interesse, come riconoscendo qualcosa che c’entra, che si pone in contatto – inter esse – con la loro vita. Perché le parole, certo, ci riguardano tutti. Nel lavoro sul lessico emerge più chiaramente la consapevolezza che l’insegnamento non dovrebbe consistere nel fornire delle nozioni, né tanto meno delle risposte, quanto nel suscitare le domande giuste e offrire gli strumenti per favorire il giudizio e la libertà. Come un giorno ha scritto uno studente in un tema: “Quando gli facciamo una domanda, il professore risponde, ma dà una risposta alla quale dobbiamo rispondere anche noi”. “Grazie” – gli ho detto – “ora ho capito meglio il mio mestiere”.
La questione, infatti, è la maturazione del soggetto: non si tratta appena di un perfezionamento esteriore del linguaggio, bensì – questo è l’aspetto più importante – della capacità stessa di pensare. Solo quando finalmente afferra la parola il soggetto raggiunge la chiarezza di un pensiero che, diversamente, rimane nebuloso: “Il concetto – scrive Edward Sapir – non giunge ad avere un’esistenza individuale e indipendente fino a che non abbia trovato una ben distinta realizzazione linguistica”, e aggiunge: “Appena abbiamo la parola noi sentiamo istintivamente, con qualcosa di simile al sollievo, che possiamo maneggiare il concetto. Ma fino a che non possediamo il simbolo noi non abbiamo la sensazione di avere la chiave necessaria all’immediata comprensione e conoscenza del concetto”.
Tema di fascino straordinario, che merita la massima attenzione se anche il grande Ungaretti, in proposito, scriveva: “Si sa che tra le parole e ciò che si vuol dire c’è sempre un divario enorme, anche quando magari sembri piccolissimo (…). Dirò dunque che cercavo l’approssimazione meno imprecisa, la riduzione di quanto possibile di quel divario ineliminabile che c’è tra le cose da dire e il modo di dirle”. E’ l’inesauribile ricerca che riempie di meraviglia gli sguardi degli studenti fermi sul biancore delle pagine del poeta, contenti perché non sarà difficile imparare “M’illumino / d’immenso” a memoria, ma anche perché intuiscono il rilievo inedito che quelle poche parole, immerse nel silenzio della pagina, assumono d’un tratto. Sono increduli nel sentire che l’autore sia tornato a più riprese sul testo di Dormire, riscrivendola con piccolissime varianti a tanti anni di distanza; guardano e riguardano il testo, come a chiedersi che cosa quell’uomo cercasse davvero e colgono – pur nella ingenua ironia che li accompagna sempre – la serietà della questione, lo struggimento del poeta per l’oggetto di una ricerca senza fine. Capiscono che aver riempito il quaderno di etimologie non è stato vano, intuendo – come disse Jorge Luis Borges – che “apprendere una lingua significa scoprire nuovi modi di osservare e capire l’universo, il mondo e noi stessi”. “Io ho da dire questo” – scriveva ancora Ungaretti – “come posso dirlo con il numero minore di parole, anzi con quell’unica parola che lo dica nel modo più completo possibile?”. Domanda suggestiva, che fa sorgere il pensiero che il processo di approssimazione verbale non abbia fine.
E’ un affinamento del linguaggio, che lungi dal ridursi a ricerca di un parlare ampolloso o inutilmente forbito, ha come obiettivo la maturazione del pensiero. Perché, come sintetizzava Umberto Galimberti, “se hai poche parole non puoi avere tanti pensieri, perché i pensieri sono proporzionali alle parole che possiedi: io non posso pensare qualcosa di cui non ho la parola. Quando ho poche parole, penso poco”. E ancora: “Con l’impoverimento del linguaggio, che crescerà sempre di più, perdiamo anche i pensieri perché nessuno può pensare una cosa a cui non corrisponda una parola. Non dobbiamo pensare che la parola sia un mezzo per esprimere un pensiero: la parola è la condizione del pensiero (…). Quindi ai giovani che si affacciano alla vita direi: non perdete le parole, perché se perdete le parole, perdete i pensieri!”. E’ nell’atto di tramutarsi in parola che la nostra esperienza si chiarisce innanzitutto a noi stessi, superando l’approssimazione e la genericità nelle quali troppo spesso la lasciamo; è per mezzo di un adeguato bagaglio di vocaboli che acquisiamo chiarezza su ciò che viviamo (“i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, scriveva Ludwig Wittgenstein) divenendo capaci di custodire l’esperienza e rendendo più nitido il nostro pensare in quanto, come ha scritto David Le Breton, “non esiste pensiero senza il linguaggio”. Curiosamente trovo un’analoga riflessione, sfogliando lo Zibaldone, anche negli scritti di Giacomo Leopardi: “Un’idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita o mal nota a noi medesimi che l’abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta”, in quanto “noi pensiamo parlando”.
La nostra consapevolezza è proporzionale alle parole che possediamo perché “le parole – ha notato acutamente Elena Ferrante – sono uno scalpello che scolpisce il pensiero”. La scrittrice Andrea Marcolongo afferma qualcosa di simile quando osserva: “Ecco a cosa servono gli etimi: a non restare sopraffatti, senza parole di fronte all’immensità del sentire”. Dare parole ai giovani significa renderli capaci di riflessione, di pensiero critico, di giudizio e dunque (come Tullio De Mauro rilevava avvertendo che “la distruzione del linguaggio è la premessa ad ogni futura distruzione”) di libertà. Ciò è tanto più importante nell’ambito di una lingua, come quella italiana, di ricchezza e profondità senza eguali. Una lingua che, come scrive ancora Leopardi, “ha un’infinità di parole ma soprattutto di modi che nessuno ha peranche adoperati. (…) Ella è come coperta tutta di germogli”. Che compagnia diviene Agamennone, se quell’arrogante che Omero gli riserva nella scena dell’aspra contesa viene confrontato con superbo, prepotente, altezzoso, presuntuoso o insolente, cercando ciò che, nelle varie traduzioni, rende unica ciascuna parola. Perché quella dei sinonimi – diciamolo – è una grande menzogna. Ditelo ai pittori, che un colore vale l’altro; non si fonda forse la loro opera sulle sfumature?
Che meraviglia quando Achille da coraggioso diviene intrepido, che sorpresa quando il mare solcato dalle navi da grande diviene vasto, da mosso diviene inquieto. O quando comprendiamo che cosa è la nostalgia, accorgendoci che i desideri di Ulisse sono un po’ quelli di ognuno di noi (tanto che la prima parola del primo verso dei dodicimila che formano l’Odissea è anér: a tema non c’è un uomo, ma l’uomo). La questione, insomma, è sperimentare l’unicità di ogni vocabolo: “Non conosco nulla al mondo – scrisse Emily Dickinson – che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando comincia a risplendere”. Accade, così, che l’improvvisa consapevolezza di uno studente renda più chiaro il senso del lavoro: “E’ come se avessi appena iniziato a studiare l’italiano”. E’ una sorta di approssimazione all’essere stesso delle cose, al nucleo della loro realtà. Martin Heidegger, del resto, ne “L’essenza del linguaggio” sottolineava l’importanza del rapporto tra le cose e le parole scrivendo: “‘Nessuna cosa è là dove la parola manca’: solo là dove per una cosa è stata trovata la parola, la cosa è una cosa. Dobbiamo perciò sottolineare: nessuna cosa è dove la parola, cioè il nome, manca”.
E’ opportuno che almeno un’ora settimanale, all’interno della programmazione scolastica, sia dedicata unicamente allo studio del lessico, alla scoperta di nuove parole, in modo da lavorare sui cosiddetti sinonimi e accompagnare gli studenti a scoprire che ogni parola è unica e descrive (altrimenti, infatti, non avrebbe motivo d’esistere) ciò che nessuna altra parola può descrivere. Ecco allora che un lavoro già ampio per l’ambito dei nomi concreti, diviene vertiginoso quando ci si accosti al vocabolario astratto: quel non so come dire, spesso pronunciato con un poco di amarezza, diviene trampolino di lancio per una missione che non teme il confronto con quella dei grandi marinai del passato o degli odierni esploratori delle stelle. Paragone non peregrino, se consideriamo che proprio dal firmamento (sidera) è nato il termine che vuole indicare quello sterminato, misterioso luogo dell’io che va sotto il nome di desiderio e che pare costituirne, persino, l’essenza. Un viaggio – come quello di Odisseo nel suo folle volo – dettato da una irriducibile curiosità, da una spinta verso la meta e, al contempo, da una costante nostalgia di casa. Non è forse null’altro che un tentativo di tornare a casa, in fondo, questa tensione a cogliere la profondità delle cose, il loro essere stesso, quasi a voler toccarne, attraverso la parola, la verità ultima e definitiva.