(foto Ansa)

università senza guida

Così i rettori italiani hanno pensato prima alle loro elezioni che a Israele

Luca Roberto

Nelle timidezze degli atenei su Israele e nella condanna al terrorismo c’entrano le elezioni per il nuovo presidente Crui: si vota il 22 novembre. "Qualunque posizione avessimo preso ci avrebbero criticato", ci dice il rettore dell'Universìtà di Trieste. E intanto centoventi docenti firmano un appello per chiedere di "alzare la voce" contro l'antisemitismo

Si sono dimenticati di Israele, ma solo perché dovevano pensare prima alle elezioni del nuovo capo dei rettori. Forse è vero che il silenzio, la sobrietà, sono connaturati all’istituzione universitaria. Del resto, mai come nei campus il clima s’arrovella facilmente. E però ha fatto particolarmente specie l’attendismo, per non dire la freddezza, con cui il mondo accademico italiano ha preso posizione sui brutali attacchi di Hamas del 7 ottobre. Scavando sotto la superficie, una ragione c’è. Abbiamo cercato voci, indagato all’interno degli atenei. Non con particolare fortuna, dobbiamo dirlo.

 

Il mondo universitario italiano sembra quasi spaventato da quello che sta succedendo in medio oriente. Ma più per le ricadute interne che per le prospettive con cui si potrà arrivare a una pace giusta. Perché prima delle soluzioni diplomatiche, della difesa di un paese che rischia di essere cancellato dalla faccia della terra, vengono le elezioni del prossimo 22 novembre, che dovranno incoronare il nuovo presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui). Un ruolo rimasto vacante per oltre un mese: l’ultimo a ricoprire l’incarico, Salvatore Cuzzocrea, si è dimesso da rettore dell’Università di Messina  dopo uno scandalo su presunti rimborsi gonfiati. Cuzzocrea alla Crui ha così lasciato una posizione vacante in un momento in cui una voce forte sarebbe stata particolarmente apprezzata. Le elezioni si svolgeranno mercoledì prossimo. E dopo che si è fatta da parte la grande favorita, la rettrice della Sapienza di Roma Antonella Polimeni – che nel frattempo è stata tra le poche a pubblicare una nota sul “brutale attacco nei confronti di Israele” –, la partita se la giocheranno in tre: Luca Brunese dell’Università del Molise, Giovanna Iannantuoni dell’Università di Milano Bicocca e Daniela Mapelli dell’Università di Padova.

In questo vuoto di potere la Conferenza dei rettori è rimasta in silenzio fino al 19 ottobre, in pratica quasi due settimane dopo gli attacchi terroristici in Israele. Quando in occasione dell’assemblea nazionale i rettori sono stati capaci di elaborare una nota che condanna “ogni forma di guerra”. Ci sono riferimenti specifici a Hamas? Neanche una riga. Anzi, come grande gesto di solidarietà la Crui ha chiesto agli atenei di esporre nelle proprie sedi la bandiera della pace “a lutto”. E ha stabilito, per tutto il mese di novembre, di osservare “un minuto di silenzio per le vittime di tutti i conflitti all’inizio delle riunioni degli organi accademici”. Anche qui, nessun riferimento alla guerra in corso o condanna espressa nei confronti di chi quella guerra l’ha scatenata. Come racconta al Foglio il rettore dell’Università di Trieste Roberto Di Lenarda, “prendere una posizione piuttosto che un’altra sarebbe stato oggetto di critiche. Abbiamo cercato di rivolgere soprattutto un messaggio ai nostri studenti, di entrambi i popoli, perché capissero che abbiamo a cuore la loro salvaguardia”. Più o meno quanto aveva detto, con grande sfoggio di equilibrismo, il rettore dell’Università di Bologna Giovanni Molari: “A un Ateneo come il nostro, orgoglioso del suo pluralismo, non compete adottare questa o quella visione ma alimentare il dibattito”. Anche se è lo stesso Di Lenarda a confessare che i crescenti episodi di antisemitismo, pure negli atenei, “ci portano ad avere la massima attenzione. Nella convinzione che il confronto, la libertà di manifestazione del pensiero, possono avvenire solo con modalità pacifiche e democratiche”.

Sempre contro l’antisemitismo, mercoledì è stato lanciato un appello firmato da 120 docenti universitari iscritti al think tank “Lettera 150”, coordinato dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Rivolto “a quella parte certamente maggioritaria dell’università italiana che crede autenticamente nei valori della libertà e della democrazia perché finalmente trovi il coraggio di far sentire la propria voce”. L’Università di Pisa è stata una delle poche ad aver condannato in chiaro gli attacchi di Hamas, ma anche, al contempo, “la successiva risposta israeliana”. Così come ha fatto il Gran Sasso Science Institute. A riprova che anche le posizioni più coraggiose vengono subito contemperate dalla necessità di non indispettire troppo gli studenti. E’ successo anche alla Federico II di Napoli, dove un docente chiedeva una nota di condanna nei confronti del terrorismo: richiesta rimasta inascoltata dai vertici dell’ateneo. O all’Università di Torino, dove ieri è stata ospitata (da remoto), nel corso di un evento organizzato dai collettivi, l’ex terrorista Leila Khaled, membro del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. E dove però il rettore Stefano Geuna si è dissociato: “Evento non autorizzato”.

 

Eppure la gran parte degli esponenti del mondo accademico è contraria, per esempio, alla richiesta dei 4 mila docenti che hanno firmato un appello per chiedere il boicottaggio delle università israeliane, sdoganando termini come apartheid o genocidio. “Perché il nostro mestiere è costruire ponti di conoscenza, non muri. E questa è una cosa che abbiamo evitato anche quando c’è stata l’invasione ucraina”, dice ancora il rettore Di Lenarda. Anche il ministro Anna Maria Bernini l’altra sera l’ha detto in tv: “Università significa porte aperte, inclusività, costruire e non boicottare”. Chissà se dopo il 22 novembre ci sarà qualcuno capace di cambiare registro. E archiviare certe ambiguità e timidezze.

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