Studenti in un’aula della Sapienza, a Roma (foto LaPresse)

Governare l'università

Andrea Graziosi

I titoli e la qualità dello studio. Le differenze di approccio e la divaricazione tra scelte e comportamenti di studenti e studentesse. Gli atenei  statali, i corsi telematici e il mercato del lavoro.  Un sistema che deve guardare al nuovo mondo

Le discussioni sulla crescita degli iscritti alle università telematiche sono una buona occasione per riflettere sull’Università italiana, spesso presente nel dibattito pubblico solo per parlare di questo o quello “scandalo”: di quella che c’è, con le sue linee di sviluppo, ma anche quella di cui avrebbe bisogno un paese come il nostro, che affronta da anni e affronterà sempre più in futuro condizioni difficili, legate ai suoi problemi demografici e di produttività oltre che al possibile accelerarsi della sua perdita relativa di status, innescato per esempio da una crisi dell’Unione europea o da quella dei rapporti con gli Stati Uniti. 

E’ bene cominciare ricordando che l’Università italiana ha cominciato a muoversi verso un modello di università di massa tipico, come si diceva allora, di un “paese sviluppato” solo negli anni del secondo dopoguerra, moltiplicando sedi, iscritti, corsi e docenti. Questa crescita non ebbe un impatto immediato sulla sua struttura che – con qualche cambiamento – rimase dapprima quella disegnata in tempi, e per tempi, diversi. Si trattava di una università omogenea, o almeno con una fortissima aspirazione all’omogeneità, che offriva un solo tipo di titolo di studio, la “laurea” (i primi dottorati comparvero negli anni Ottanta), di durata generalmente quadriennale e di relativamente pochi tipi: ci si laureava in lettere, in giurisprudenza, in ingegneria o in medicina ecc., certo con qualche declinazione, ma all’interno di un quadro sostanzialmente unitario, garantito fino al 1969 dalla riserva dell’iscrizione a specifici diplomi di scuola secondaria, e fino all’autonomia universitaria di vent’anni dopo dall’appartenenza dei docenti ad un corpo unico, direttamente dipendente dallo Stato.

Era però già allora in corso un fortissimo processo di differenziazione, e quindi anche e inevitabilmente di stratificazione, che era conseguenza e specchio dell’evoluzione della società italiana, nonché risposta alle sue esigenze e alle scelte e preferenze delle persone che ne fanno parte. Le università italiane offrono oggi sei titoli diversi (oltre a varie specializzazioni), tutti con maggiore o minore “valore legale”: laurea triennale, magistrale, a ciclo unico, dottorato e master di primo e secondo livello (master che offrono punteggi ai concorsi pubblici e di cui è prevista normativamente una regolazione che finora non c’è stata e forse è bene non ci sia se non in forma di indicazioni generalissime, anche se andrebbero perciò riviste le norme che la prevedono e quelle che gli assegnano un valore per così dire “paralegale”).

Questi titoli si possono conseguire in più di 50 classi di laurea triennale di primo livello, che avevano nel 2021-22 più di 1,2 milioni di iscritti; circa 100 lauree magistrali o a ciclo unico, con rispettivamente 416.000 e 308.000 iscritti; quasi 1.100 dottorati di ricerca, con 37.000 dottorandi; e in ancor più master. Nel 2022 quelli di primo livello erano 1.100 e quasi 1.000 quelli di secondo (di cui il 16 e il 7 per cento offerti dalle telematiche), con un totale di circa 60.000 iscritti.
Si tratta naturalmente di titoli di complessità e difficoltà molto diverse, anche all’interno della stessa tipologia. Essi richiedono forme e intensità di studi e di impegno differenti, hanno bisogno di dotazioni “materiali” (laboratori, biblioteche, risorse elettroniche, ecc.) e quindi di investimenti diversissimi, e offrono prospettive di lavoro e carriera estremamente differenziate. 

La possibilità di conseguire questi titoli è offerta da quasi 100 università (erano 23 nel 1870, 29 nel 1960 e meno di 50 ancora nel 1980): 67 statali, 20 legalmente riconosciute e 11 telematiche, di qualità molto diversa. La cosa è assolutamente normale, e si può anzi dire che l’Italia ha ancora oggi meno “università” di quante ne potrebbe avere se si capisse che nella società post-industriale l’istruzione terziaria è per sua natura differenziata e potrebbe (e dovrebbe) quindi articolarsi su più tipi di istituzioni, con obiettivi e magari con nomi diversi. Negli Stati Uniti si va per esempio dai community colleges a università famose nel mondo e anche per questo vi sono tanti “laureati”, molti dei quali in Italia non sarebbero considerati tali. Il laureato, insomma, è oramai, anche in Italia, molto diverso sia rispetto a quello di 50 anni fa, sia rispetto ai suoi colleghi, laureati come lui ma che hanno fatto scelte diverse, o sono stati costretti dalle circostanze a farle.

Diversi sono anche gli studenti, e non solo per provenienza sociale e geografica, e quindi possibilità concrete, ma anche per ambizioni e preferenze che un livello di vita dignitoso permette ormai per fortuna a molti di esprimere e spesso di realizzare. Ci sono tanti, e non solo perché costretti, che studiano nelle loro città o in quelle vicine, e tanti che si trasferiscono, per lo più ma non solo dal sud al nord e comunque verso atenei ritenuti migliori o semplicemente più convenienti per le prospettive di impiego che offrono. Non pochi lo fanno già al triennio e molti alla magistrale, che ha prodotto un benefico aumento della mobilità a livello nazionale, anche perché richiede un investimento su soli due anni. Ci sono poi le decine di migliaia di studenti italiani che fanno ogni anno l’esperienza Erasmus (una percentuale ridotta, certo, ma significativa, del totale), e un numero crescente di giovani che perseguono da subito, spesso forti del sostegno familiare, l’obiettivo di un titolo europeo o statunitense, anche di prestigio. E ci sono quelli che inseguono invece un titolo che gli permetta di partecipare ai concorsi pubblici o di fare carriera se già occupati, o più semplicemente di migliorare o aggiornare la loro preparazione e quindi le loro prospettive.

Questa diversità è accresciuta da quella, in veloce e forte divaricazione, tra scelte e comportamenti di studenti e studentesse: tranne che in poche discipline, le donne studiano ormai di più e meglio degli uomini, conseguendo risultati migliori, con importantissime ricadute psicologiche e politiche. Del fenomeno si discute molto negli Stati Uniti – lo fa oggi Richard Reeves in Of boys and men ma già lo aveva fatto Hanna Rosin con The end of men nel 2012 – ma esso è molto avanzato anche in Italia dove nel 2021 le donne erano quasi il 60 per cento dei laureati, e riportavano di regola i voti migliori. 

Questo processo di crescita e differenziazione, su cui è utile e interessante scorrere le pagine del Rapporto ANVUR 2023 sul sistema della formazione superiore e della ricerca da cui ho tratto la maggior parte dei dati, non ha tuttavia portato alla nascita di un sistema di istruzione terziaria talmente grande e complesso da essere in grado di autoregolarsi con pochi interventi dall’alto, come sarebbe auspicabile. E’ tra l’altro probabile che la nascita di un sistema di questo tipo richieda una scala che solo un’Europa unita potrebbe offrire, ma sappiamo quanti e quali ostacoli intralcino questa soluzione: anche nel mondo dell’istruzione terziaria il nostro resta un continente di culture, lingue e sistemi nazionali, ancorché in difficoltà, che i progetti comunitari – come l’Erasmus o il progetto di una “laurea europea” – riescono solo parzialmente a modificare.

La nostra istruzione terziaria si fonda quindi ancora su un nucleo centrale costituito da un sistema statale di qualità per fortuna medio-alta nelle sue componenti essenziali, e capace di produrre ricerca e istruzione di alto livello in quasi tutti i settori centrali del sapere, anche se non è stato in grado di dar vita atenei d’avanguardia riconosciuti come tali a livello internazionale. Esso è affiancato da un settore legalmente riconosciuto (ma non sempre privato) che, fatta eccezione per le scienze mediche e biologiche, si concentra su economia, giurisprudenza e scienze politiche, che non richiedono grandissimi investimenti; dall’istruzione artistica e musicale, con 150 istituti (tra cui alcuni di punta nel mondo) ma solo circa 80.000 studenti; e dalle università telematiche, che non hanno per definizione le grandi strutture, né gli ambienti di ricerca, necessari a far progredire la scienza e le tecniche moderne. 

Se così stanno le cose, occorre governare, in condizioni nuove, un sistema ancora sostanzialmente nazionale ma che deve guardare al mondo, facendo i conti con i limiti propri di tutti i sistemi amministrati, la cui qualità dipende da quella di chi li dirige, vale a dire il ministero dell’Università e della Ricerca, insieme all’ANVUR e agli organi di governo cresciuti dopo l’autonomia in tutti gli atenei e rafforzati dalla riforma Gelmini. Questa indispensabile regolazione è chiamata a supplire, per quanto possibile, all’assenza, o comunque alla debolezza, del complesso sistema di feedback assicurato invece da un grande “mercato”, pur con tutti i suoi difetti. Si tratta di un limite, e di un vincolo, molto forti e ineliminabili, con cui bisogna imparare a convivere minimizzandone le conseguenze negative e cercando di far funzionare al meglio un insieme per sua natura fragile e, in assenza di costanti iniziative e cure dall’alto, oggi incline al deterioramento all’interno della più generale traiettoria nella stessa direzione dell’Italia e dell’Europa nel mondo contemporaneo.

E’ nella prospettiva di questo bisogno generale di regolazione che vanno inquadrate anche le università telematiche. L’istruzione a distanza, in cui esse affondano le loro radici, ha una tradizione secolare, legata alla storia e alla cultura del mondo sindacale e della sinistra (pensiamo all’Open University inglese). Il “Sessantotto” ha cambiato le cose, ma prima di esso le Università erano non irragionevolmente viste dai partiti operai come bastioni del potere e del privilegio. La rivoluzione francese arrivò ad abolirle (è qui una delle radici della superiorità tedesca nell’Ottocento: solo la sconfitta di Sedan convinse Parigi a rivedere le proprie scelte); quella russa le indebolì gravemente (a salvarle fu l’elitismo di Lenin e Trockij, ma la richiesta di “facoltà operaie” fu forte e Stalin se ne fece l’alfiere), e tutti dovremmo sempre ricordare quel che successe nella Cina della rivoluzione culturale, di cui purtroppo ha ancora credito in Italia un’immagine falsa e falsante.

Per uno strano scherzo della storia, la comparsa tardiva di questo tipo di istruzione nel nostro paese, dove ha assunto anche per questo motivo la forma telematica, è legata invece al governo Berlusconi, che ne approvò comprensibilmente la creazione ma lo fece senza rispettare regole o adottare standard, e incoraggiando una moltiplicazione di soggetti non in linea con le migliori esperienze internazionali. Il legame con la sinistra si affermò poi comunque rapidamente: solo per fare alcuni esempi, un ministro di Rifondazione comunista è stato a lungo rettore di una delle principali università telematiche, Luciano Violante è oggi presidente di Multiversity, e vicini al mondo delle telematiche sono importanti esponenti dei Cinque stelle. Restava saldo intanto anche il rapporto col centro-destra, e si rafforzava così una vicinanza alla politica che non è di buon auspicio per il sistema universitario italiano nel suo complesso.

L’introduzione di una nuova forma di istruzione terziaria non era invece di per sé negativa: come aveva spesso fatto in passato quella a distanza, le telematiche rispondevano a esigenze e preferenze personali di studenti di tipo diverso da quello tradizionale. Anche in Italia, per esempio, molti dei loro primi iscritti erano lavoratori già occupati o di età relativamente più avanzata, persone che chiedevano una formazione continua che potesse agevolarli anche nella carriera. Ad essi presto si aggiunse, e in numero crescente, chi sceglieva una telematica dopo esperienze sfortunate con le università tradizionali. Ancora oggi gli iscritti con più di 31 anni sono meno del 10 per cento nelle università tradizionali e più del 45 per cento in quelle telematiche, che hanno anche un uguale percentuale di iscritti con precedente carriera in altri atenei (significativamente, tuttavia, nelle telematiche il primo dato è oggi inferiore, e il secondo superiore, a quello di pochi anni fa).

Questa parziale convergenza nella tipologia degli studenti ha coinciso con una crescita straordinaria del loro numero: nel 2011/12 le telematiche avevano solo 44.000 studenti rispetto al 1.720.000 delle università tradizionali. Dieci anni dopo ne avevano 224.000 a fronte di un numero rimasto invece invariato nelle tradizionali, passando dal 2,5 all’11,5 per cento del totale, mentre la percentuale degli immatricolati balzava dal 1,6 al 7,5 per cento e altrettanto facevano l’offerta di lauree magistrali e la quota dei laureati (dall’1,7 al 9,9 per cento).

Sarebbe interessante accertare quanta di questa crescita sia legata al Covid, che ha incoraggiato la scelta dell’isolamento e accelerato la penetrazione delle telematiche tra gli studenti dell’Italia settentrionale. E’ probabile che abbia pesato anche il brusco passaggio delle università tradizionali a modelli telematici, come è probabile che abbia giocato un ruolo la retorica superficiale e autolesionistica che accompagnò questa scelta inevitabile, e quindi giusta, oltre che perseguita con prontezza. Non pochi ripeterono allora che l’insegnamento telematico rappresentava il futuro e il “progresso”. Ma proprio l’esperienza del Covid e del passaggio di massa a corsi online fece subito capire i limiti dell’e-learning, all’università come nelle scuole, mostrando come la presenza sia indispensabile allo sviluppo di fondamentali forme “orizzontali” di apprendimento tra pari e alla crescita intellettuale e umana permessa, specie ma non solo ai più giovani, dal conoscere e frequentare ambienti e collettività diversi dai loro anche perché fatti da persone con esperienze e di provenienze diverse.

Inoltre, se è vero che i corsi telematici ben organizzati hanno dimostrato la loro efficacia nell’impartire, di regola dall’alto, i principi fondamentali di una disciplina, e si sono rivelati preziosi come strumento di didattica integrativa, l’esperienza dei mesi di chiusura ha tuttavia subito sottolineato il peso e il ruolo cruciali di un rapporto stretto col docente, oltre che con gli altri frequentanti, nei corsi di livello superiore, in quelli umanistici come in quelli tecnico-scientifici, dove senza esperienza diretta di laboratorio e lavoro di équipe il livello di apprendimento non può andare oltre certi limiti. 

Quest’ultimo è il punto essenziale, che non riguarda la “concorrenza indebita” che le università telematiche farebbero alle università tradizionali. Il vero e grande rischio è che in un paese come il nostro, che non è più quello in veloce sviluppo e differenziazione di qualche decennio fa, ma soffre di impoverimento demografico e economico, le dinamiche spontanee portino appunto “spontaneamente” a una riduzione e a un declassamento del nostro sistema universitario. Quest’ultimo, per esempio, si trova già a fronteggiare la fragilità di alcuni degli atenei nati nella fase alta dello sviluppo, specie ma non solo nel meridione, e presto il “conto demografico” arriverà anche ai grandi atenei del settentrione. Ma pure la concentrazione delle migliori università “private” nei già ricordati, pochi settori non è di buon auspicio per la formazione delle élite di un paese che voglia mantenere la sua posizione nel mondo e non è aiutato, in questo sforzo, dalla lingua: l’italiano non è purtroppo tra quelle europee di grande presenza internazionale (inglese, francese, spagnolo e, a suo modo, russo), e ciò non facilita l’attrazione di studenti e docenti dall’estero. 

Va da sé che il declassamento di quello che è forse lo strumento chiave per assicurare la competitività internazionale del nostro sistema culturale e produttivo (inteso in senso lato), avrebbe conseguenze dolorose anche per il nostro tenore di vita e per la possibilità stessa di sostenere le fasce più deboli della popolazione. Purtroppo, i primi segni di questa tendenza sono già visibili: pensiamo, non per demonizzarli ma semmai per ammirarne l’iniziativa e sperare che riportino in Italia almeno parte di quanto apprenderanno, alla quota sempre più elevata dei giovani più ambiziosi che decidono di formarsi direttamente all’estero. E’ un bene, ma un bene che diventerebbe segnale preoccupante se si legasse alla percezione, e magari anche al fatto, che le nostre università sono meno in grado di quanto non fossero fino a qualche decennio fa di offrire una formazione di qualità. E’ un problema di cui soffrono anche altri paesi europei e che ha finora dimensioni limitate, ma che ci ricorda con forza che se vogliamo mantenere, o anche solo non diminuire troppo, la nostra posizione internazionale dobbiamo continuare a essere capaci di produrre, in tutti i settori, anche professionisti e ricerca di qualità internazionale.

Insomma, difendere la parte alta del nostro sistema universitario e della ricerca è oggi essenziale e conviene a tutti. Farlo richiede appunto buona regolazione, a tutti i livelli, per dare, come dicevano i giuristi romani “a ciascuno il suo” in modo da garantire tutti. E farlo è possibile: ricordo per esempio quando il ministero pose fine al malcostume del riconoscimento eccessivo di crediti pregressi agli iscritti, che aveva contagiato tutto il mondo universitario e che scesero in pochi anni dal 20-30 al 2 per cento, o al ruolo benefico avuto da parti importanti della legge Gelmini e dalla valutazione della ricerca. 


E’ evidente che oggi bisognerebbe rivedere, regolandoli razionalmente in modo nuovo, meccanismi importanti come l’Abilitazione scientifica nazionale, il settore post-dottorale, messo a rischio da provvedimenti sbagliati, o il sistema dei concorsi. Lo stesso discorso vale per le telematiche, che vanno aiutate a migliorare la loro specificità, imponendo loro vincoli quando è necessario farlo. Se per esempio è ragionevole vi sia una sproporzione anche forte tra il loro rapporto docenti-studenti e quello delle università tradizionali, ciò può valere per le lauree triennali e certi tipi di discipline. Ma, per esempio, buone lauree magistrali richiedono e non solo formalmente tesi serie e ben fatte, e come è possibile assicurare ciò con 348 studenti per docente, al posto dei 28 degli atenei tradizionali? E perché non accertare la presenza di risorse elettroniche bibliografiche significative per chi voglia aprire corsi di un certo livello? Purtroppo invece di far questo si è puntato a imporre alle telematiche vincoli spesso irragionevoli, obbligandole per esempio a offrire una quota corsi in streaming, e al contempo si sono aboliti i vincoli che rendevano loro giustamente arduo offrire corsi dottorali, che richiedono grandi strutture di ricerca, laboratori, biblioteche anche elettroniche di qualità ecc. 

Il rischio è che da un lato si impedisca alle telematiche di far bene il proprio lavoro, e dall’altro si attivino meccanismi di concorrenza impropria e al ribasso, nei livelli superiori, con le nostre università migliori, aprendo le porte alla possibilità che titoli “cattivi” (come una laurea magistrale priva di una tesi seguita da vicino e basata sulla disponibilità di dignitose risorse di ricerca) scaccino quelli buoni. Arriviamo così al tanto dibattuto problema del “valore legale” della laurea, che è spesso mal posto e diventa quindi irrisolvibile. Il valore legale è infatti necessario e non può essere abolito, pena per esempio il venir meno della possibilità di riconoscere i titoli italiani all’estero. Quello che si potrebbe e dovrebbe fare è considerarlo un requisito minimo, fondato sul rispetto di standard minimi definiti dalla legge per la sua acquisizione, abolendone quindi non l’esistenza ma l’uguale valenza, come già avviene oggi nel privato. 

Ciò naturalmente cozza con la tradizionale, e spesso benintesa, retorica dell’uguaglianza, che però nel campo dell’istruzione superiore, e quindi del futuro del paese, può far danni, specie nella nuova epoca in cui viviamo che, almeno in Europa, è un’epoca più difficile e dura della precedente. Per fronteggiarla abbiamo bisogno di una regolazione che ci aiuti ad avere un sistema il più libero e aperto possibile alle scelte e ai bisogni di individui diversi, e quindi differenziato e stratificato, ma che difenda anche con forza l’esistenza di un sistema universitario italiano di buona qualità, e con punte di eccellenza significative nella maggioranza, se non in tutti, i settori del sapere. 

Se vogliamo continuare a essere quello che siamo riusciti a diventare dobbiamo insomma “riconoscere” la nuova realtà in cui viviamo e abbracciare un principio difficile da accettare anche perché non ne abbiamo avuto a lungo bisogno. Il tempo in cui si cresceva e progrediva automaticamente, senza pensarci (un periodo che la Cina ha appena conosciuto, l’India sta conoscendo e l’Africa sta iniziando a conoscere), è per noi europei finito. È quindi indispensabile, per tutti, sostenere e aiutare anche i forti che per fortuna ancora abbiamo. 

La nostra università pubblica di qualità semigratuita è uno strumento prezioso in questo senso, ma essa è già entrata in un periodo difficile, anche se la manna del PNRR ne copre temporaneamente i problemi. Dobbiamo quindi pensare a come sostenere questi “forti” (un discorso che vale per i nostri atenei come per grandi realtà scientifiche come l’Istituto nazionale di fisica nucleare), anche accettando una differenziazione che non può che essere anche stratificazione, oltre che risposta a esigenze diverse. Farlo regolando bene e con intelligenza, è nell’interesse generale ed è una priorità nazionale e europea.

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