boicottaggio nascosto
Così gli atenei italiani hanno disertato le collaborazioni con Israele: presentati solo 18 progetti
Nella lista del bando Maeci calano le ricerche congiunte con le università israeliane. Segno che i rettori e i docenti hanno preferito non esporsi per il timore di surriscaldare gli animi (e indispettire i pro Palestina). Il caso coraggioso di Padova
Formalmente hanno scelto di non boicottare gli accordi con atenei ed enti di ricerca israeliani. Ma di fatto, le nostre università si sono auto boicottate. Come? Semplicemente, temendo rivolte, hanno disertato il bando di collaborazione del ministero degli Esteri. Il Foglio ha visionato l’elenco dei progetti ricompresi nella chiamata scaduta lo scorso 10 aprile: in totale sono 18. L’anno scorso erano stati 85, due anni fa 36. Si tratta di partnership che riguardano la ricerca in campo agricolo, nella purificazione delle acque e sulla salute dei suoli, la desalinizzazione, la produzione di energia blu. Altro che rischio di dual-use e possibili applicazioni militari. Nove di questi progetti sono di enti di ricerca (dal Cnr al Crea). Mentre l’Università di Padova, in controtendenza, ha stipulato ben quattro accordi.
Il capo dei rettori Giovanna Iannatuoni l’ha ripetuto in più occasioni: il boicottaggio delle università israeliane non è la soluzione alla crisi in Medio oriente. Gli atenei italiani, quindi, alla fine hanno preferito evitare quel che è successo all’Università di Torino, che sotto la pressione dei collettivi scelse di ritirarsi dal bando Maeci. E però quasi tutte le istituzioni universitarie hanno scelto di sfilarsi, non presentando progetti di partnership con le controparti del paese ebraico. Come detto quest’anno i progetti sono 18, la metà di quanti ne erano stati presentati nel 2022 (36) e circa un quarto di quanti ne vennero presentati lo scorso anno (85). Difficile pensare che non abbia pesato il clima di tensione che si respira nei campus, dove le occupazioni e le manifestazioni pro Palestina vanno avanti spedite sin dall’immediato post 7 ottobre.
La metà dei progetti di ricerca sono stipulati da università, l’altra da enti di ricerca tra i quali il Cnr (la controparte è l’Università dell’Haifa), l’Istituto nazionale di ricerca metrologica, l’Istituto nazionale di Fisica nucleare, l’Istituto nazionale di Astrofisica ma anche l’Agenzia spaziale italiana, che ha stretto una collaborazione scientifica con il dipartimento di Scienze e agricoltura del Beit Beri Academic College. Tra gli atenei il più “coraggioso” è quello di Padova, titolare di ben quattro rapporti di collaborazione (due con la Hebrew University di Gerusalemme, uno con la Università Ben Gurion del Negev e un altro con la Ben Ilar University). Gli altri esempi “solitari” provengono dall’Università La Sapienza di Roma (con la Hebrew University), il Politecnico di Milano (con il Braude College of Engineering Karmiel), l’Università statale di Milano (ancora con la Hebrew University), l’Università dell’Insubria (con il Galilee Research Institute) e l’Università dell’Aquila (con la Bar Ilan University).
Una buona fetta della ricerca scientifica, insomma, viene portata avanti da chi forse riesce a tenersi meglio al riparo dalle contestazioni studentesche di queste settimane. Ma a vedere meglio le materie oggetto degli accordi, soprattutto applicazioni in campo agricolo, per il miglioramento della salute del suolo e per la pulizia delle acque, quella delle università italiane sembra essere per lo più un’occasione di sviluppo andata persa. Per il solo timore di non saper gestire chi continua a urlare “from the river to the sea, Palestine will be free”.