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La lettera

Gli errori di chi vuole bloccare le collaborazioni tra atenei universitari

Marco Cantamessa e Mauro Velardocchia

I media danno ampio spazio alle manifestazioni che chiedono di interrompere le collaborazioni con Israele, ma casi simili sono emersi anche in altri ambiti. Tre motivi per cui brandire "l'eticità" può essere controproducente, perché nella ricerca servono libertà e responsabilità

In questi giorni, i media hanno dato ampio spazio alle manifestazioni che chiedono alle Università di interrompere le collaborazioni con Israele e con il comparto industriale della Difesa. In realtà, casi simili sono già emersi in altri ambiti, dalla ricerca sull’energia nucleare alla collaborazione con settori ritenuti climalteranti. Di fatto, si mette in discussione, sulla base di considerazioni variamente definite come “etiche”, la possibilità di effettuare attività di ricerca su determinati argomenti, o di attuare collaborazioni con specifici soggetti, settori industriali, o paesi.
 

L’intento di orientare l’evoluzione tecnologica verso uno sviluppo sostenibile e pacifico è ovviamente condivisibile. Ma le strade lastricate di buone intenzioni sovente conducono in luoghi spiacevoli. Come ricercatori attivi nella ricerca tecnologica, riteniamo che tutto ciò rischi di mettere in discussione i fondamenti dell’Università pubblica e della libertà della ricerca, senza peraltro essere efficace.
 

In primo luogo, la collaborazione istituzionale tra Università e i diversi corpi dello stato costituisce non solo un valore, ma una necessità e un dovere. In particolare, questo non può escludere attività svolte nell’ambito della Difesa, purché ovviamente operate con enti, pubblici e privati, che si conformino alle norme in vigore, e alle istituzioni democratiche del paese e dei suoi partner internazionali. Peraltro, oggi sono in molti a sostenere il ruolo dello stato nell’orchestrare processi innovativi attorno a grandi temi e sfide di interesse pubblico, tra i quali è difficile immaginare si possano escludere i comparti dell’energia o della Difesa. Anche se ciò viene sovente taciuto, quest’ultimo costituisce il caso di maggior successo di queste politiche per l’innovazione.
 

In secondo luogo, occorre intendersi sul concetto di “etica”. Regolamenti e comitati etici presenti presso atenei ed enti di ricerca si occupano del corretto svolgimento delle attività di ricerca, ma le attuali critiche si indirizzano a qualcosa di diverso: si pretende di valutare ex ante esiti e usi dei risultati di ricerca, insieme alla presunta “eticità” degli interlocutori con cui si opera, così da determinare decisioni amministrative sull’ammissibilità di attività e collaborazioni. Ciò comprimerebbe la libertà di ricerca garantita dalla Costituzione, ed esporrebbe al rischio di decisioni arbitrarie, politicamente manipolabili e progressivamente incontrollabili. Pertanto, riteniamo che l’unico limite condivisibile sia quello dell’etica intesa come legittimità, ovvero come rispetto delle norme in vigore. Norme che, sebbene siano sovente poco note agli stessi ricercatori, già oggi vincolano in modo stringente attività di ricerca, scelta dei partner, e gestione dei relativi risultati.
 

Quando si opera su campi delicati, quali l’intelligenza artificiale, l’energia, la difesa, la discussione può e deve essere sempre aperta, ma rispettando le sensibilità sia di chi intende rifiutarsi di fare ricerca in tali ambiti, sia di chi invece è intenzionato a farla. In questi ambiti, e specialmente quando si opera su innovazioni radicali, i cui effetti potenzialmente dirompenti potrebbero avvenire in un vuoto etico e normativo, auspichiamo che le comunità accademiche sviluppino più ampie prospettive, quali ad esempio quella rappresentata dall’“etica della responsabilità”.
 

Ciò deve però mantenersi, senza esondare in decisioni amministrative, sul piano dell’elaborazione culturale. Senza entrare nel dibattito tra determinismo tecnologico e costruzione sociale della tecnologia, società e tecnologia devono co-evolvere con un continuo dialogo tra chi sviluppa la tecnologia e la società che, adottandola, deve sviluppare modi d’uso appropriati. Siamo convinti che il nesso tra sviluppo tecnologico e il suo impatto debba essere gestito in modo responsabile, senza limitarsi a un pilatesco “il ricercatore sviluppa una tecnologia, ma dell’uso sono responsabili altri”. Tuttavia, ciò non può esplicitarsi nell’altrettanto superficiale rifiuto di occuparsi di determinati temi, quando non addirittura nel vietarlo ad altri. È invece bene che si padroneggi la tecnologia in modo da poterne appieno, e in modo scientificamente fondato, comprendere pregi, difetti, valori e rischi, anche per poter promuovere, in modo competente e talora critico, azioni nei confronti dei policy maker.
 

In terzo luogo, riteniamo velleitario che si possano valutare ex ante i possibili sbocchi della tecnologia per determinarne l’opportunità, perché a ogni risultato di ricerca sono da sempre abbinabili usi diversi. Tecnologie per la difesa hanno da sempre avuto ricadute importanti nell’ambito civile (ad esmepio  sistemi a microonde, Internet e Gps), e tecnologie civili hanno trovato facile impiego come strumenti di difesa o di offesa. Questo secondo canale è oggi assai intenso, tra uso di dispositivi consumer in ambito bellico e uso ostile di contesti civili (ad esempio cyberattacchi alle infrastrutture, psy-ops usando i social media, ecc.). Pertanto, usare il concetto di dual use come discrimine ex ante potrebbe portare ad ammettere o a escludere arbitrariamente qualsiasi ricerca. Il concetto di dual use va inteso in modo opposto, come monitoraggio e gestione in itinere ed ex post dei risultati di ricerca, così da scongiurarne un uso malevolo e tale da mettere in pericolo la sicurezza nazionale, o la violazione di leggi e trattati
 

In conclusione, auspichiamo che si rifletta su responsabilità e libertà della ricerca, ascoltando e dibattendo tutte le posizioni, ma senza forzature né sul ruolo istituzionale degli atenei, né sui contenuti scientifici, né sulla libertà accademica. Solo così sarà possibile portare il nostro paese a un livello di sviluppo tecnologico tale da garantire prosperità e sicurezza, operando in modo maturo e responsabile rispetto alla sfida di costruire una pace giusta e duratura e un futuro sostenibile.
 

Marco Cantamessa e Mauro Velardocchia
sono professori ordinari al Politecnico di Torino