L'analisi

L'università da riformare. Che fare dei contratti di ricerca

Andrea Graziosi

A due anni da una legge sbagliata. Bisogna alleggerire la fase dal dottorato all’ingresso in ruolo

Le giovani e i giovani bravi, che amano studiare e desiderano far avanzare la conoscenza, sono il sale della terra, ed è beato e fortunato il paese che tratta bene i suoi ed è capace di attirarne dal mondo. In Italia si è ripreso di recente a discuterne, dopo una legge sbagliata che prevede una figura rimasta inattuata (i contrattisti di ricerca). E’ quindi opportuno cercare di capire come stanno le cose e parto perciò da qualche dato. 
Come dice il Rapporto Anvur  2023, da noi questi giovani sono un gruppo relativamente piccolo. Nel 2021-22 le borse post dottorato (chiamate assegni di ricerca), che sono in quasi tutto il mondo lo strumento principale dei loro primi anni di relativa indipendenza, erano in Italia quasi 16.000, una cifra molto simile a quella del 2012. Questo a fronte di circa 35-36.000 dottorandi che lavorano alla loro tesi, anche questa una cifra molto simile a quella di 10 anni prima. Ciò vuol dire che prima della “bolla” prodotta dal Pnrr, di cui è difficile predire gli sviluppi, ogni anno hanno preso il titolo di dottorato circa 9-10.000 giovani studiosi, visto che la stragrande maggioranza dei dottorati prevede un ciclo di formazione triennale, che è il minimo previsto dal legislatore. Questi neodottori di ricerca si sono per anni trovati a competere per un po’ meno di 7.000 assegni (tanti sono quelli banditi ogni anno, il che lascia immaginare che la maggior parte degli assegni siano rinnovati per un secondo anno), un collo di bottiglia abbastanza stretto anche se uno tiene conto di quelli tra loro che, come è giusto e normale che sia, trovano subito impiego nell’industria o nell’amministrazione.
Questi assegni sono mal retribuiti: come spesso accade nel nostro paese, il “minimo” previsto e mai aumentato dal 2011 (19.300 euro all’anno, al netto di pochi contributi che però spesso vogliono dire poca previdenza, con la nota positiva che gli assegni sono sostanzialmente esentasse) è di fatto la regola, anche se niente impedisce di bandire assegni di importo più alto. Benché opportunamente prevedano la possibilità per gli assegnisti di svolgere un massimo di attività didattica pari a 40 ore all’anno, contribuendo alla loro formazione e irrobustendo il loro curriculum, essi garantiscono solo di rado agli assegnisti fondi di ricerca propri, come sarebbe invece giusto; e di regola sono banditi su progetti altrui, di cui studiosi più anziani e stabilizzati sono i titolari. La cosa non è in sé anormale ed è anche in buona parte ragionevole. L’importante è però tutelare, e gli assegni lo facevano, la possibilità di bandire anche per progetti presentati autonomamente dai nostri giovani migliori e più ambiziosi.


Soprattutto, se consideriamo che l’Università italiana ha avuto in media negli ultimi 10 anni circa 60.000 docenti e ricercatori, cui si debbono aggiungere i circa 9.000 ricercatori degli Enti pubblici di ricerca, e immaginiamo, spero realisticamente ma sarebbe meglio avere dati precisi, che il turnover sia pari a circa 3.000 posti all’anno, e forse di meno, questi giovani si trovano dopo il primo assegno di fronte a un secondo collo di bottiglia, ancora più stretto, che fa sì che molti tra loro continuino a vivere di assegni precari per diversi anni. 


Si capisce quindi perché con la Legge 79 del 2022 (una legge di iniziativa parlamentare Pd-M5s, che causò forti perplessità anche nel ministero e nell’accademia) le forze politiche abbiano cercato di affrontare la situazione. Il problema è che lo hanno però fatto male e in modo dannoso e infatti si va avanti da allora con proroghe del vecchio sistema, che pure sarebbe necessario migliorare.


Tralascio l’abolizione delle figure dei ricercatori di tipo A e B, che avevano dato buona prova di sé, e la loro sostituzione con un nuovo tipo unico, il “ricercatore a tempo determinato in tenure track” (vale a dire con la garanzia del passaggio a professore associato entro sei anni). Noto solo che essa fa dell’Italia uno dei pochi paesi avanzati privi di una figura di ingresso elastica, che nel mondo dell’università e della ricerca non è priva di senso, e riduce a regime, finiti i tempi felici del Pnrr, la possibilità per le università di bandire concorsi per questa figura, visto che per farlo bisogna stanziare la dotazione per un posto di associato (e la corrispondente quota di punto organico).


Soprattutto la legge ha abolito gli assegni di ricerca sostituendoli con la figura del contratto di ricerca biennale e rinnovabile per un altro biennio, con piene garanzie previdenziali,  le cui condizioni debbono essere stabilite da una contrattazione sindacale nazionale. A due anni dalla legge, ciò non è avvenuto, anche perché i contratti presentano fortissime criticità:


- Il loro costo è doppio rispetto a quello degli assegni, quindi se ne potrebbero bandire molti di meno, anche alla luce dei pesanti vincoli di spesa introdotti dalla stessa legge che li ha istituiti, che recita “la spesa complessiva per l’attribuzione dei contratti di cui al presente articolo non può essere superiore alla spesa media sostenuta nell’ultimo triennio per l’erogazione degli assegni di ricerca, come risultante dai bilanci approvati”. I contratti aggraverebbero quindi enormemente il collo di bottiglia esistente e date le prospettive non sarebbe realistico pensare di risolvere il problema chiedendo uno stanziamento doppio;
- Non sono esenti dalla tassazione Irpef, quindi l’aumento di costo per le università non si riflette in una busta paga più alta per i giovani studiosi;
- Comportano il divieto di svolgere attività di insegnamento, che spezza il legame tra didattica e ricerca, penalizza la formazione dei giovani e li rende meno competitivi nei concorsi nazionali e internazionali, dove è richiesta l’esperienza didattica;
- Possono essere banditi solo in relazione a progetti predefiniti, e quindi eliminano la possibilità che i giovani studiosi possano lavorare a progetti propri;
- Sono contrattualizzati sindacalmente, al contrario degli altri ruoli accademici;
- Pur non volendolo o dichiarandolo, essi avrebbero di fatto, in virtù delle loro caratteristiche, forti conseguenze “autarchiche” riducendo la nostra già preoccupantemente bassa capacità di attrazione di bravi giovani studiosi da altri paesi.

Invece di migliorare la situazione, i contratti quindi la peggiorano, e sono rimasti per fortuna lettera morta. Sarebbe perciò opportuno riformare la Legge 79: a) usandone gli aspetti positivi, come alcune delle garanzie previste per i contratti e la riduzione delle figure previste (di cui si discute invece malauguratamente la moltiplicazione); e b) adottando alcune delle raccomandazioni della commissione della Conferenza dei Rettori, incluso un forse inevitabile cambiamento di nome (si parla di contratti post-doc, ma sarebbe meglio per tanti motivi trovare qualcosa di più vicino alla terminologia internazionale, che usa fellowship). 


Si potrebbe per esempio:
- Lasciare intatte le caratteristiche positive degli assegni così come configurate dalla legge precedente, e in particolare la loro natura esentasse, la possibilità di svolgere 40 ore di insegnamento all’anno e quella di bandire su progetti presentati dai candidati;
- Introdurre, come fanno i contratti, il requisito del dottorato di ricerca o della specializzazione medica per l’accesso;
- Limitare l’accesso a chi ha conseguito il dottorato o la specializzazione da non più di cinque anni;
- Prevedere assegni di almeno un anno rinnovabile, ma preferibilmente di due anni rinnovabili;
- Ritornare a limiti di durata stringenti per il numero di anni per i quali il singolo studioso può complessivamente usufruirne anche in tempi e sedi diverse, onde evitare il protrarsi di situazione di precariato (si potrebbe per esempio immaginare di non poter usufruire di assegni per più di sei anni complessivamente nel corso della carriera);
- Potenziare le garanzie previdenziali di assegniste e assegnisti;
- Alzare il tetto minimo dell’importo degli assegni ad almeno 25.000 euro annui, per recuperare almeno una parte dell’inflazione, ma meglio sarebbe 27.500;
- Introdurre un minimo ragionevole di fondi di ricerca legato ai singoli assegni per missioni, conferenze, strumentazione ecc.

Non c’è quindi bisogno di abolire contratti comunque difficilmente realizzabili. Soprattutto, lo scopo deve essere alleggerire per quanto possibile la fase più delicata e importante nella vita dei giovani studiosi, quella dal dottorato all’ingresso in ruolo, ricordando che i dottorandi sono studiosi in formazione (cioè tecnicamente studenti, anche se di tipo particolare e avanzato, e non lavoratori precari); che anche i neodottori non hanno ancora, tranne casi eccezionali che vanno difesi, la maturità necessaria per l’accesso in ruolo, che va acquisita anche con esperienze all’estero o almeno in università italiane diverse dalla propria; che è impossibile che tutti gli assegnisti accedano all’Università e che va fatto il massimo per garantire che siano i migliori a farcela. Non bisogna insomma illudersi che possa essere una fase priva di scelte, tensioni e anche delusioni, ed è sbagliatissimo concepirla come fase di ingresso in un impiego pubblico normale, cosa che l’Università e la ricerca non sono. Bisogna piuttosto impegnarsi per fare in modo che essa sia, per quanto possibile, anche e soprattutto ricca di esperienze positive e di successi, e meno gravata da pesi, vincoli, e preoccupazioni, anche finanziarie.

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