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Cinque buoni motivi per abolire finalmente gli esami di maturità

Antonio Gurrado

La soppressione di questo ballo in maschera, in cui i professori fingono di essere severi e gli alunni si convincono di essere spaventati, presenterebbe non pochi vantaggi, dal risparmio all'autorevolezza della nostra istituzione scolastica

Ogni anno, a metà giugno, lascio risuonare il mio delenda Carthago: aboliamo gli esami di maturità! La soppressione di questo ballo in maschera, in cui i professori fingono di essere severi e gli alunni si convincono di essere spaventati, presenterebbe ben cinque vantaggi.
 

Il più immediato è il risparmio: anziché pagare la trasferta a Voghera di un docente di Vigevano e quella a Vigevano di uno di Voghera, per dare un tocco esotico alla cerimonia, meglio destinare quei soldi (nonché quelli spesi nella patetica sfida dei ventilatori contro la calura nelle aule) alla ristrutturazione di edifici scolastici in pezzi. Il taglio degli esami garantirebbe più agio alla manutenzione e anche alle attività didattiche estive, che oggi si risolvono quasi in niente. 
 

Abolire la maturità uniformerebbe inoltre le valutazioni su tutta Italia. Ogni autunno appaiono statistiche sulla sproporzione fra i voti d’esame a nord e a sud, immancabilmente in controtendenza rispetto agli esiti delle prove Invalsi. È perché queste ultime sono identiche ovunque, con valutazione automatica, mentre la maturità è una prova semi-nazionale: l’unitarietà degli scritti si squacquera nel giudizio di una commissione diversa ogni due classi, che poi appioppa voti all’orale secondo un diverso grado di clemenza imponderabile. Senza più voti di maturità, conosceremmo finalmente le scuole italiane che preparano meglio gli alunni, scoprendo che non sono quelle che elargiscono 100 e 100 e lode.
 

Abolire la maturità, in terzo luogo, favorirebbe la selezione. Se ai tempi di Gentile l’esame era insormontabile, oggi le percentuali di successo si assestano sopra il 99,5 per cento. È un esame che non esamina. Invale peraltro un gioco perverso, secondo cui si può essere ammessi all’esame superando lo scrutinio preliminare anche con un’insufficienza non grave. Accade dunque che, a inizio giugno, i docenti commissari interni tendano ad alzare i propri voti per evitare rogne; quelli delle altre materie anche, per comprensibile generosità in assenza di controprove; le insufficienze lievi vengono arrotondate e, se ce n’è una grave, viene smussata così da garantire all’alunno di provarci comunque. Lo scrutinio promuove scaricando la responsabilità sull’esame e l’esame promuove scaricando la responsabilità sullo scrutinio. Sarebbe meglio invece che il punteggio finale venisse deciso nel modo più oggettivo possibile, a opera del consiglio di classe, sommando i voti veri presi dall’alunno in ciascuna materia, senza morire di tattica né mandarlo allo sbaraglio.
 

La maturità è invece un mero fenomeno di costume, come dimostrano i commenti alle tracce della prova d’italiano. In anticipo rispetto al primo scritto, posso vaticinare che: qualcuno si lamenterà perché ai suoi tempi erano più difficili, protesterà perché almeno un argomento non era in programma, trarrà conclusioni sociologiche come gli aruspici che scrutavano le interiora, tirerà fuori l’allarme fascismo, se non ci sarà un tema sulla Resistenza, o la retorica antifascista, se ce ne sarà uno. Qualcuno mapperà gli autori dei brani citati nelle tracce e scatenerà polemiche sugli inclusi e sugli esclusi. Non sarebbe più rilassante eliminare un pretesto per polemiche sterili, che tramonterebbero per svenimento se solo qualcuno scoprisse davvero quanto i temi siano scritti coi piedi?
 

Perché, ed è l’ultimo motivo, abolire la maturità ci risparmierebbe un’occasione (la peggiore) in cui parlare in scuolese. Dalla stesura delle tracce allo svolgimento delle prove, da indicatori e descrittori sulle griglie di valutazione a quell’orrendo “stimoli” per definire i materiali di partenza degli orali, tutta la messinscena si svolge in un linguaggio artificiale che ricalca quello para umbertino delle circolari di segreteria, dei protocolli ministeriali, degli studiosi avanguardisti di pedagogia e didattica che si affannano a dotare la propria scienza di uno statuto epistemologico superiore all’astrologia. Poi tutti si diplomano convinti che si parli davvero così, ed escono dalla scuola senza sapere cosa vuol dire “delenda Carthago”.

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