esami di stato
La scena muta delle tre studentesse di Venezia svela l'ipocrisia della maturità
Il singolare caso di cronaca porta alla luce la duplice natura dell’alunno-ircocervo, grossomodo metà persona e metà prestazione. E lascia intendere anche il poco valore che l'iconico esame, ormai, ha assunto nel tempo
Come si valuta un alunno che sta zitto? Credo sia questa, in estrema sintesi, la domanda paradossale e scandalosa di fronte a cui sono stati posti i commissari del Liceo classico Foscarini di Venezia, dove ben tre alunne volutamente non hanno proferito verbo pur presentandosi agli orali della maturità. Del resto, avevano comunque abbastanza crediti per passare l’esame e pare avessero già superato le prove d’ingresso universitarie. Conta poco che si trattasse di una sorta di sciopero bianco contro i punteggi, a loro dire troppo bassi, affibbiati alla seconda prova dal membro esterno di Greco; credo invece che la polemica sulla versione sia solo un accidente della storia per farci sbattere il muso contro una questione fondamentale sul senso della scuola. Un alunno, quando dev’essere valutato, non è mai solo una persona né solo una prestazione. Se si valutasse solo la persona, qualsiasi verifica o interrogazione risulterebbe inutile, e ci si baserebbe soltanto sul pregresso dell’attenzione fra i banchi e della costanza nello studio. Se si valutasse solo la prestazione, essersi impegnati per anni ogni mattina e ogni pomeriggio non varrebbe nulla a fronte dell’occasionale emicrania o dello svenimento imponderabile.
Affidandosi a griglie di valutazione che talora rasentano il ridicolo, con indicatori e descrittori che con un occhio guardano alla didattica celeste e con l’altro al rischio che qualche genitore emozionante ricorra agli avvocati, gli insegnanti cercano di barcamenarsi fra questi due estremi, almeno fino alla maturità. E’ lì tuttavia che casca, facile metafora, l’asino: gli esami di stato con una mano reggono la cornucopia della rendita di posizione, garantendo quaranta punti in base ai crediti maturati nei tre anni precedenti; con l’altra assestano sberle, affidando i restanti sessanta punti al parere di una commissione che, in maggioranza, conosce l’alunno solo tramite due scritti e un colloquio. Nei giorni convulsi della maturità appare lampante la duplice natura dell’alunno-ircocervo, grossomodo metà persona e metà prestazione. Le tre ragazze veneziane, che tutti descrivono come studiose, sono di sicuro anche intelligenti: hanno colto lo iato fra queste due identità, ne hanno ravvisato l’inconfessata incongruenza e, in modo più o meno istintivo, hanno messo la commissione spalle al muro. Decidere di fare scena muta all’orale equivale a dire: noi siamo queste, e se ci valutate come persone abbiamo già accumulato abbastanza punti da superare l’esame col minimo di 60, quindi la performance è inutile; se invece ritenete che tutto dipenda dalla performance, abbiate il coraggio di mettere per iscritto che non conta nulla quanto abbiamo costruito a fatica in tre anni di studio. Non vorrei essere commissario in quell’esame (non vorrei esserlo mai, a dire il vero), poiché gli insegnanti saranno di fatto chiamati a decidere se abbia ragione la vulgata ministeriale, secondo cui la maturità è il passaggio fondamentale nella vita di ogni alunno, o l’ammutinamento azzardato dalle tre ragazze, per far cadere il velo di ipocrisia e dimostrare che la maturità, così com’è, non serve a niente.