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passatismo in cattedra

La direttiva di Valditara contro gli smartphone a scuola, tra problemi e ambizioni malriposte

Antonio Gurrado

La misura vuole eliminare i dispositivi dalle aule: non si potranno usare nemmeno sotto la guida degli insegnanti e come strumenti formativi. Ma così si pone un tema di praticità, uno di didattica e uno di libertà. E vengono a galla un paio di cortocircuiti del ministro dell'Istruzione

Chissà se il convegno “La scuola artificiale” avrebbe avuto lo stesso risalto se, ieri, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara non fosse intervenuto illustrando la circolare che regolerà l’utilizzo del telefonino a scuola a partire da settembre. Più che regolarlo, a dire il vero, pare che lo ignorerà. Le direttive ministeriali prevedono infatti che alle elementari e alle medie, pardon, alla scuola primaria e alla scuola secondaria di primo grado, lo smartphone sarà proibito del tutto: non solo come oggetto di svago e distrazione ma anche come strumento didattico sotto la guida degli insegnanti.

 

La direttiva pone in realtà alcune questioni, di natura anzitutto pratica, ma anche didattica, libertaria e tecnologica. All’atto pratico, il principale problema sarà cosa fare dei telefoni che entrano a scuola. È ovviamente impossibile imporre ai genitori di requisire lo smartphone ai figli prima che entrino in classe, poiché ciò implicherebbe il rischio che qualche ragazzino si trovi senza possibilità di contattare casa nell’itinerario di andata e ritorno – qualora lo compia autonomamente – o di sentire i genitori nel caso tardassero nel tornare a prenderlo. Di per sé non sarebbe un gran problema, almeno per molte famiglie; tuttavia, coi genitori combattivi che si ritrova la scuola italiana, pronti a contestare ogni mezzo voto e ogni accenno di nota, è un nulla venire sommersi da una pioggia di ricorsi contro il disumano provvedimento.

  

Se invece i telefonini possono essere portati a scuola ma non usati, devono venire o tenuti spenti o consegnati all’ingresso. Nel primo caso, ci sarebbe bisogno di un incaricato alla verifica dello spegnimento, cosa che comporterebbe almeno una cospicua perdita di tempo, se non situazioni di evidente imbarazzo nel corso dell’operazione, fra il tira e molla con gli alunni refrattari e lo sporadico benché inevitabile rampollo di genitori che insorgeranno per l’invasione della privacy. Nel secondo caso, considerato che pochissime scuole italiane sono dotate di armadietti personalizzati, si finirebbe rapidamente nel labirinto delle recriminazioni per eventuali furti o presunti danneggiamenti di un oggetto costoso, che rientra nella proprietà privata degli alunni e delle famiglie, e lo stato non può disporne.

    

Qui subentra, in effetti, la questione libertaria. Uno dei principali motivi di patema nelle famiglie italiane è decidere a che età consegnare al figlioletto il fatale dispositivo, di cui non si libererà mai più per il resto dei suoi giorni. È, più del primo armeggìo coi trucchi o della prima sigaretta, il momento in cui l’infanzia viene implicitamente dichiarata conclusa e inizia il riconoscimento della responsabilità individuale e sociale, sotto il controllo più o meno svagato dei genitori. Si può dibattere all’infinito sull’opportunità di collocare questo rito di passaggio prima o dopo, dalla prima elementare alla terza media; non si può tuttavia contestare la liceità e, soprattutto, l’autonomia della scelta da parte delle famiglie. I genitori, fino a prova contraria, non vanno a scuola. Impedire l’utilizzo del telefono fino alla terza media, salvo consentirlo dalla prima superiore, appare come un tentativo da parte del ministero di collocare questo passaggio a un’età indubbiamente ragionevole, ma che contrasta con le libere e speriamo ponderate decisioni della famiglia. A quel punto il bambino chi sceglierà, fra le due autorità in contrasto?

    

La diatriba ha in realtà a che fare con la questione didattica. La scuola italiana, tradizionalmente, si pone come veicolo della formazione etica degli studenti – dai primi rudimenti di disciplina alle più o meno coinvolgenti iniziative contro le mafie o il cyberbullismo – e la circolare illustrata ieri si colloca in questo solco. Lo testimonia l’argomentazione stessa di Valditara, che ha dichiaratamente contrapposto l’utilizzo dello smartphone al ritorno in auge della scrittura a mano sul diario. Quest’ultimo aspetto è di certo benvenuto e necessario; stupisce però la contrapposizione, come a delineare un futuro suddiviso fra schiere di pollici digitanti e una minoranza di scribi con la piuma d’oca. O, peggio ancora, una scansione della giornata degli alunni fra le ore di scuola, in cui il telefonino è tabù, e le ore a casa, in cui si sta attaccati allo smartphone per recuperare il tempo perduto.

 

Didatticamente, significa dichiarare fallimento e arrendersi. Proibire il telefonino per tornare alla penna equivale infatti a rinunciare non solo al tentativo di renderlo strumento educativo – come è accaduto fino a quest’anno scolastico, e come continuerà ad accadere al liceo – ma anche all’idea che se ne possa insegnare un utilizzo corretto, con tempo e pazienza. Estromettere lo smartphone dalle aule scolastiche significa evitare che possano esserci momenti di confronto (anche aspro) sui suoi benefici e sui suoi pericoli, lasciando di fatto l’interazione col virtuale totalmente in mano ai ragazzini, senza la possibile mediazione del buon senso degli insegnanti.

    

Eppure questa ritirata viene presentata come atto di coraggio, ossia come passo in avanti verso la scuola del tempo che fu, simboleggiata proprio da ciò che Valditara ha chiamato “il diario di una volta”. Come Giuseppe Verdi, torniamo all’antico e sarà un progresso. Fatto sta però che proporre questo modello a persone nate nel 2012, nel 2015, o nel 2018 – anziché nel 1980 come me, nel 1961 come il ministro, o nel 1813 come Giuseppe Verdi – significa presentare loro un modello di rapporto fra uomo e tecnologia completamente diverso rispetto a quello in cui sono cresciuti, in nome di un astratto passatismo.

  

Dietro all’idea di proibire il telefonino a scuola si celano, infatti, due ambizioni malriposte. La prima è che possa bastare un divieto a sopprimere un’usanza, quando invece è noto il contrario: se un’usanza si è imposta, non c’è divieto che possa ricondurre indietro le lancette. Anche perché quali saranno in concreto le pene? Una multa pecuniaria come per il fumo, un rimbrotto paternalista come per l’occasionale parolaccia, un provvedimento disciplinare come per le puntine da disegno sulle sedie? Più grave ancora appare la seconda ambizione: insegnare ai bambini che la tecnologia sia in fondo malvagia, una deformazione di una vita spontanea e naturale in cui si scrive in corsivo e si corre in cortile dietro a farfalle multicolori. E che la scuola sia quindi un luogo paradisiaco, il cui equilibrio non viene disturbato dalla tecnologia, a differenza di qualsiasi altro aspetto della vita quotidiana: dall’abbonamento ai mezzi pubblici al conto in banca, dagli highlights della partita al messaggino alla nonna. Chissà, forse è questa la scuola artificiale di cui parlava il convegno.

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