Platone e i cellulari
La partita a scuola non si gioca fra tecnoforici e tecnofobici ma fra attenzione e disattenzione
Questa storia dei telefonini che non si possono più portare in classe ricorda maledettamente i taccuini di Platone, gli “hypomnemata” che il grande pensatore ateniese poteva accettare, a patto però che non diventassero un modo per svuotare le teste
Non è possibile scomodare ogni volta il filosofo, ma insomma: questa storia dei telefonini che non si possono più portare in classe, ricorda maledettamente i taccuini di Platone, gli “hypomnemata” che il grande pensatore ateniese poteva pure accettare, a patto però che non diventassero un modo per svuotare le teste, per impoverire la memoria. Tu ti affidi al supporto, e invece di ritenere a mente, registri su dispositivo, dopodiché, però, devi dire addio alle competenze di una volta (Platone usava altre parole, io lo modernizzo un po’). Non ci credi? Portamelo, allora, uno che sappia estrarre la radice quadrata: dubito che ne troverai uno, nel tuo condominio o nel tuo quartiere.
Tanto peggio per l’estrazione di radice, si dirà, e sono d’accordo. Ma il fatto è che gli smartphone possono fare molte più cose di una calcolatrice tascabile. E, soprattutto, possono distrarre. Nella circolare recante disposizioni in materia, il ministro Valditara si appella al rapporto Unesco, al rapporto Ocse Pisa e a ulteriori “recenti analisi” per sostenere che il telefono cellulare proprio non ti aiuta nell’apprendimento: ti distrae, distoglie l’attenzione dal lavoro in aula, diminuisce il rendimento. La circolare aggiunge qualche elemento di preoccupazione in più, che riguarda in generale l’uso della tecnologia in fasce d’età sensibili – l’infanzia e la preadolescenza – e francamente non sono sicuro che l’argomentazione ne guadagni. A me basta sapere che avere l’attenzione degli studenti è più difficile, se hanno un telefonino tra le mani, e non ci vuole nessun particolare campione statistico per convincersene. Tra questa banale evidenza, e una più ampia e definitiva dimostrazione dei danni che l’uso invasivo della tecnologia recherebbe ce ne corre, e non c’è motivo di arrivare fin lì (a meno che non si voglia riaprire la questione con Platone). Ma, per chiarire il punto: se “recenti analisi” provassero (non so come) che si darebbe agli studenti un’indimenticabile lezione scaraventando il loro smartphone per terra, per calpestarlo poi con energica e insistita perfidia, non troverei comunque sensato invitare la comunità scolastica ad adottare simili provvedimenti, a scopo di deterrenza.
La partita che impegna i docenti a scuola si gioca, molto più prosaicamente, fra distrazione e attenzione, e non fra tecnoforici e tecnofobici. Non so se il ministro tema l’incondizionata resa della cultura alla tecnologia, come nel celebre libro di Neil Postman dedicato al trionfante “tecnopolio” contemporaneo, ma per la verità non credo nemmeno che, per vaccinarsi contro simili, fosche previsioni tocchi tornare a celebrare lo spirito e l’inventiva del più grande uomo scimmia del Pleistocene, quello che nel romanzo di Roy Lewis scopre accidentalmente il fuoco bruciacchiandosi le dita, ma aprendo così la via del progresso e della civiltà a un’umanità ancora arboricola. Anche meno, direi: anche meno. Invece di cimentarsi con scenari futuribili, guardiamo quello che succede in concreto, tra i banchi di scuola (ci sono ancora i banchi, vero?), e se chattare, postare, taggare, filmare, cliccare siano o no lo stesso che studiare, calcolare o domandare. La risposta è: no. Sicché è vero che ci tocca saper fare le une e le altre cose, ormai, ma i modi in cui si apprendono le prime sono diversi dai modi in cui si apprendono le seconde, e la scuola ha senso se e finché ha senso custodire questa differenza.