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Alla lavagna

La Storia ai tempi del governo Meloni

Giorgio Caravale

Che cosa non va nella riforma  annunciata dal ministro Valditara, che sembra prescrivere l’insegnamento di una “nuova” Storia incentrata sul concetto di identità italiana. L’improbabile ritorno all’antico. La “regia” di Galli della Loggia

Da quando la scorsa primavera il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha annunciato pubblicamente l’intenzione di rivedere i programmi scolastici, in particolare quelli di storia (e geografia), il mondo della scuola, e degli storici, è in subbuglio. 

 
Docente universitario di diritto romano, già senatore della Lega nella scorsa legislatura e responsabile Scuola di Alleanza nazionale al tempo di Gianfranco Fini, lo scorso maggio Valditara ha dichiarato che le scuole primarie dedicano troppo spazio ai dinosauri, troppo poco alle vicende storiche risorgimentali, alla Guerra fredda e al terrorismo. A cosa fa riferimento il ministro? Evidentemente a un tema molto dibattuto risalente all’ultima riforma scolastica che, più di dieci anni fa, ha reputato pleonastico, persino ridondante, ripetere per due volte consecutive, rispettivamente nella scuola primaria e secondaria di primo grado (per capirci: elementari e medie) lo studio dell’intero ciclo della Storia dalla preistoria al Novecento. Motivo per il quale oggi nelle scuole elementari italiane i bambini studiano la storia fino all’alto medioevo, mentre alle medie il programma prevede lo studio del basso medioevo fino alla caduta del Muro di Berlino. Si potrebbe osservare che un bambino di 7-8 anni non ha ancora sviluppato un adeguato senso dello spazio e del tempo tale da consentirgli di comprendere il senso del Risorgimento italiano o della Seconda guerra mondiale, sia pure narrati in termini semplici e schematici, mentre lo studio dell’evoluzione della specie è per lui un’ideale introduzione alla dimensione temporale (e spaziale) della Storia. Altrettanto convincentemente si potrebbe sostenere, d’altronde, che festeggiare il Giorno della Memoria senza avere conoscenze di base sulla storia del Novecento non abbia alcun senso. Opinioni (più che legittime) a confronto su cui il ministro ha deciso di prendere posizione. 

  

 
Il cuore dell’annunciata riforma di Valditara sembrerebbe risiedere però, più che nella riformulazione delle scansioni temporali per lo studio della storia, nell’insegnamento di una “nuova” Storia incentrata attorno al concetto di identità italiana. “Non c’è futuro senza identità”, ha twittato il ministro lo scorso marzo in coincidenza con l’annuncio della riforma. “Studiare più Storia significa studiare meglio l’identità italiana”, ha ribadito poco dopo. Non proprio una novità considerando che da almeno due decenni i ministri dell’Istruzione dei governi italiani si scontrano ideologicamente, oltre che politicamente, a suon di proposte identitarie vs. proposte globaliste. A Tullio De Mauro si oppose Letizia Moratti, a Moratti rispose Giuseppe Fioroni, e a quest’ultimo replicò Mariastella Gelmini, ognuno con un’idea diversa di come impostare lo studio della Storia a scuola. Francesco Profumo, l’ultimo della fila, abbracciò nel 2012 l’approccio globalista di Fioroni ma solo nella scuola primaria, quella che ora Valditara vuole riformare riprendendo il testimone lasciato da Letizia Moratti nel 2004, di cui peraltro era stretto collaboratore. D’altra parte, come pretendere che la destra non faccia la destra. Dappertutto in Europa e nel mondo la destra sta cavalcando la reazione identitaria successiva alla sbornia di inizio secolo nella quale i cantori della globalizzazione hanno prospettato le magnifiche sorti e progressive di un mondo sempre più integrato e cosmopolita, dimenticando l’inevitabile corollario di diseguaglianze ed emarginazioni sociali portate con sé dal processo di crescente interdipendenza economica e finanziaria tra le diverse parti del mondo. 


Il ministro non l’ha mai dichiarato esplicitamente ma questa sua annunciata riforma sembrerebbe proprio l’applicazione del libro manifesto pubblicato lo scorso anno da Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla, intitolato “Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo” (Morcelliana, 2023). Galli della Loggia è un autorevole e noto storico, editorialista del Corriere della Sera da più di trent’anni, una delle voci più ascoltate del panorama giornalistico italiano. Perla è una stimata docente universitaria di Didattica e pedagogia speciale presso l’Università Aldo Moro di Bari. Insieme hanno ripreso e sviluppato in funzione didattica le idee formulate tempo addietro da GdL nel suo L’identità italiana, un libro che inaugurò un’omonima collana da lui stesso diretta per l’editore Il Mulino, dedicata per l’appunto a “raccontare in che modo gli italiani sono diventati quelli che oggi sono attraverso la loro storia”, aiutandoli a “capire l’origine, i contenuti e il senso della loro identità individuale e collettiva”


L’oggettiva difficoltà di individuare intellettuali di area adeguati al ruolo di guida e il lodevole tentativo di allargare il proprio bacino culturale di riferimento hanno evidentemente indotto il governo Meloni ad affidarsi a un intellettuale liberale, ex socialista, conservatore ma non certo proveniente dalla destra post-fascista come per l’appunto Ernesto Galli della Loggia, fresco, peraltro, di nomina a presidente del gruppo di lavoro voluto dalla ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini per istruire la riforma del reclutamento universitario. Valditara, inoltre, a conferma di un legame di fiducia ormai più che consolidato tra GdL e l’attuale governo, ha pure emanato una circolare ministeriale con la quale fa sua la proposta, formulata anni fa dallo storico dalle colonne del Corriere della Sera, di vietare l’uso dei telefoni cellulari all’interno degli edifici scolastici per gli alunni fino alla terza media, incoraggiando contestualmente il ritorno all’uso del diario cartaceo al posto di quello elettronico, destinato a rimanere ad uso esclusivo dei genitori.


GdL è quindi il vero architetto della riforma scolastica di Valditara, nonché ispiratore della commissione nazionale per la revisione delle indicazioni nazionali presieduta – non a caso – dalla coautrice di “Insegnare l’Italia” Loredana Perla. La composizione di questa commissione, un gruppo di lavoro, ripetiamo, incaricato di rivedere i programmi scolastici, soprattutto quelli di storia, ha meravigliato non poco chi si occupa professionalmente di storia. Essa risulta infatti composta da soli pedagogisti, senza neppure la presenza di un singolo storico. Come se – questo il sottotesto della scelta ministeriale – esistesse un metodo di insegnamento universale applicabile a ogni materia, come se ogni singola disciplina non avesse le sue specificità metodologiche oltre che contenutistiche. Certo, si dirà, il ministero ha poi nominato un gran numero di sotto-commissioni relative ai singoli saperi disciplinari che dovranno coadiuvare la commissione nazionale. Resta il fatto che la responsabilità ultima della riforma rimane in capo alla corporazione dei pedagogisti. La scelta ha stupito a maggior ragione chi aveva letto e condiviso il duro attacco sferrato da Galli della Loggia cinque anni fa contro il predominio della pedagogia. Nelle pagine de L’aula vuota, un libro dal titolo e sottotitolo: Come l’Italia ha distrutto la sua scuola apocalittici, questi affermava che “da anni è la pedagogia che dice alla scuola ciò che essa deve essere, ciò che deve insegnare e come deve farlo”. Nelle aule scolastiche, aveva infierito GdL, non si parla altro che il “linguaggio della pedagogia […] divulgato e mediato dalle circolari ministeriali”: è con questo linguaggio “che sono redatte le decine di moduli valutativi, di formulari di ogni tipo che gli insegnanti sono tenuti a riempire, nonché le indicazioni nazionali che essi sono tenuti a seguire”. Insomma, scriveva, “la pedagogia è ormai divenuta la cultura egemonica nella scuola, l’unica attraverso cui la scuola parla”. Questa vera e propria deriva pedagogista si sostanzia, secondo il GdL di cinque anni fa, nella convinzione che “la forma della trasmissione del sapere abbia un’importanza di per sé cruciale” e che dunque “il modo in cui s’impara è più importante di ciò che si apprende, dei ‘contenuti disciplinari’”, ovvero del contenuto delle materie impartite sui banchi di scuola. Non poteva essere detto meglio


Così, due mesi fa, la Sisem, la società italiana per la storia dell’età moderna, di cui sono presidente dallo scorso febbraio, insieme ai colleghi antichisti, medievisti, contemporaneisti e alle tante società sorelle facenti parte della galassia universitaria, si è trovata a contestare ufficialmente il ministro Valditara e la commissione da lui istituita, utilizzando paradossalmente le stesse argomentazioni usate da GdL cinque anni fa contro il predominio assoluto della pedagogia, disciplina della quale ancor più paradossalmente ora in “Insegnare l’Italia” egli denuncia insieme a Perla la “crisi fortissima” e addirittura “l’irrilevanza”.


Ad ogni modo, ciò che interessa qui è il contenuto del libro manifesto dell’annunciata riforma Valditara. Gli autori puntano il dito su due fenomeni che stanno mettendo in ginocchio il mondo della scuola, la soffocante burocratizzazione del lavoro dei docenti e la drammatica crisi di autorevolezza degli stessi. Quando vent’anni fa si è cominciato a ragionare sull’opportunità di trovare metri di valutazione e autovalutazione del lavoro scolastico nessuno aveva previsto che tale processo potesse trasformarsi – il discorso vale in egual misura per l’università – in un cappio al collo dei professori, in una giungla di riunioni, report e scadenze burocratiche, un ostacolo a volte insormontabile per le necessarie attività di insegnamento, aggiornamento e ricerca per le quali essi sono pagati


GdL e Perla sottolineano anche l’urgenza di “restituire autorevolezza ai docenti all’interno delle loro classi”. Giustissimo. Uno dei problemi maggiori della scuola di oggi è lo scarso rispetto di cui soffrono gli insegnanti, le licenze (e le insolenze) che studenti rabbiosi e frustrati si permettono nei confronti dei loro professori. Il problema è di enorme portata e non è limitato al solo mondo della scuola. Massimo Recalcati ha parlato tempo fa di uno slittamento da una Scuola-Edipo a una Scuola-Narciso e quindi da una scuola fondata sul rapporto verticale e gerarchico tra generazioni differenti e sul conflitto tra Legge e desiderio – ovvero l’ideale conservatore dell’obbedienza e quello rivoluzionario del cambiamento – a una scuola fondata su una liquida orizzontalità che rompe il patto generazionale tra insegnanti e genitori in nome di una perversa collusione tra narcisismo dei figli e dei genitori: una collusione, quest’ultima, che lascia gli insegnanti nella più totale solitudine. 

  


La soluzione però non può essere il ritorno a una Scuola-Edipo, come propongono gli autori di “Insegnare l’Italia”, né tantomeno il ritorno a una società pre-sessantottina capace di ripristinare il “modello dell’istruzione dei figli delle classi dominanti occidentali (dell’aristocrazia prima e della borghesia poi)”, estendendolo “anche ai giovani di diversa estrazione sociale”, come scriveva GdL ne L’aula vuota. Uno dei maggiori limiti del recente libro-manifesto è proprio la struggente vena nostalgica che lo anima, una vena che fa il paio con un violentissimo attacco ai valori del Sessantotto, qualsiasi cosa ciò voglia significare. Dopo aver sottolineato il ruolo delle “critiche corrosive dei sessantottini nella caduta verticale del rango sociale occupato dalla scuola e dal suo corpo insegnante” e la necessità di un “percorso urgente di revisione di alcuni princìpi ereditati da una certa ideologia degli anni 60”, gli autori si spingono oltre descrivendo un “mondo di adulti che negli ultimi sessant’anni ha sbagliato tutto”, addirittura un “mondo che pullula di imbroglioni e furfanti pronti a colpire e a sfruttare le debolezze altrui”.

  

Un mondo orribile, insomma, che trae origine per l’appunto dalla cultura sessantottina, l’origine di tutti i mali del mondo. Di qui la necessità di tornare ad un idilliaco mondo pre-sessantottino, fermando le lancette dell’orologio possibilmente agli anni Cinquanta del secolo scorso. Il simbolo di questo appello al ritorno dell’antico è la proposta degli autori di “Insegnare l’Italia” di porre il libro Cuore di De Amicis, pubblicato nel 1878, al centro dell’offerta educativa della scuola italiana. Un libro che, come ha scritto Marcello Fois, ha contribuito in modo decisivo a “inventare gli italiani” quando gli italiani non c’erano, o si affacciavano appena sulla scena internazionale. Un testo che, nelle intenzioni dei due autori, dovrebbe addirittura sostituire l’insegnamento dell’Educazione civica essendo esso stesso un “concentrato di tutti i valori di cittadinanza, comunità, laicità”, necessari alla formazione dei nuovi giovani cittadini italiani. Ma si tratta di un romanzo che propone un modello di educazione nazionale secondo il quale “la classe è l’Italia fisica, gli alunni sono gli italiani, il maestro è l’italianità”, per usare sempre le parole di Fois, un testo cioè che rispecchia un’Italia che non esiste più da molti decenni e non può essere dunque proposto come riferimento per l’educazione civica di bambini e ragazzi nati nel XXI secolo.

 
La soluzione non è quella di un nostalgico riavvolgimento del nastro temporale, non è quella di riportare le lancette all’anno zero né tantomeno quella di reintrodurre la predella, il supporto che innalzava di qualche centimetro la cattedra del docente, come proposto provocatoriamente tempo fa dallo stesso GdL. 

 
La via d’uscita da questo cono d’ombra, molto più faticosa e dispendiosa certo, passa per una valorizzazione economica e sociale del ruolo della scuola e dei suoi docenti che faccia ricorso a misure finanziarie shock, accompagnate da una martellante campagna culturale e mediatica che insista sulla centralità della scuola per il futuro della società e per una più rigorosa selezione dei docenti stessi. E passa per la sistematica aggressione a un sistema di valori sempre più concentrato sulle abilità prestazionali anziché sulla trasmissione del sapere. 


Trattandosi di un pamphlet polemico – GdL è un maestro riconosciuto della provocazione intellettuale – non poteva non contenere una serie di fantasmi costruiti ad hoc per dare maggiore efficacia alle argomentazioni degli autori. Eccoli dunque accusare nemici immaginari di riversare addosso agli insegnanti “la totale responsabilità della mancata formazione delle nuove generazioni”, oppure di aver intrapreso “la strada della disappartenenza nazionale” per educare nientedimeno a “una cittadinanza planetaria”, o ancora di puntare a “liberare bambini e ragazzi dal fardello delle proprie anguste vicende nazionali”. Ed eccoli immaginare “giovani immigrati di seconda e terza generazione” che scoprono l’orgoglio della loro diversità “rifiutando l’assimilazione culturale nel paese ospitante” ed esigendo di “coltivare lingua e cultura di origine in istituzioni scolastiche ovviamente congruenti con la propria cultura”. Non è così. Tranne rare eccezioni, chi iscrive i propri figli nelle nostre scuole fa un atto di fiducia nei confronti del nostro paese e un investimento nella nostra cultura. 

   
La Storia deve tornare al centro dell’insegnamento scolastico. Quando GdL scrive che la Storia è “il principale strumento a nostra disposizione per cercare di capire le cause dei fatti sociali”, che l’indagine storica induce a “scoprire che le idee, i costumi, le religioni mutano a seconda della geografia”, e contiene dunque sempre una fondamentale “lezione di relativismo”, non possiamo che essere d’accordo con lui. Occorre ampliare, e non contrarre come è stato fatto in passato, le ore di insegnamento scolastico della storia: sottoscrivo

   
Quello su cui non sono d’accordo è che l’identità dei nostri figli possa essere fissata una volta per tutte nei caratteri nazionali italiani, che essa “debba arrivare a coincidere con l’identità nazionale” come sostengono gli autori di “Insegnare l’Italia”. Se proprio vogliamo parlare di identità, ogni individuo costruisce la propria a partire da una straordinaria molteplicità di fattori, alcuni dei quali condivisibili con gli altri abitanti della penisola italiana, molti altri invece sono peculiari della propria storia personale. E ciò vale naturalmente a maggior ragione per chi abita le nostre città ma proviene da tradizioni e culture diverse. Gli autori insistono giustamente sulla necessità di partire, nell’insegnamento scolastico della Storia e non solo, dall’ “esperienza diretta”, dall’“intelligenza delle cose”, dall’“esperienza dei sensi del bambino”, in altre parole da “ogni sapere [che] si tocca, si vede, si ascolta”. Chiedono correttamente di puntare su un processo di apprendimento che muova dal “concreto all’astratto, dal vicino al lontano, dal prossimo al distante”. 

 
Se è vero, come scrivono, che è necessario essere consapevoli delle “proprie radici, ancoraggio saldo nella liquida dimensione della globalità”, non si capisce perché le radici del figlio di un immigrato cinese, filippino, sudamericano o anche europeo, debbano essere considerate meno importanti da coltivare e custodire di quelle di un bambino italiano. Come se il confronto e il dialogo con “radici altre” potesse togliere qualcosa alla costruzione della personalità dei nostri figli, come se ci possa essere una patente di italianità che alcuni ricevono per nascita e altri invece devono guadagnarsi sul campo a suon di esami, rinunciando o abdicando alle proprie origini. Un suggerimento per partire dalle “cose”, da ciò che si tocca e si vede come suggeriscono i due autori, potrebbe essere quello di invitare i bambini delle primarie a condividere periodicamente un oggetto d’affezione con i propri compagni di classe raccontando loro le ragioni per cui tale oggetto è importante nel loro immaginario. A partire da quegli oggetti e da quelle narrazioni gli insegnanti potrebbero costruire un discorso storico e dunque culturale. E naturalmente, gli oggetti così condivisi non racconterebbero solo le radici italiane ma anche le altre radici, quelle dei figli di immigrati, le cui “cose” aiuterebbero gli insegnanti a ragionare su culture e tradizioni differenti e sul possibile incontro tra di esse. 

  
Piuttosto che vagheggiare una scuola e una società che non esistono più, occorrerebbe concentrare gli sforzi nel migliorare le condizioni della scuola e della società esistenti. Per esempio rafforzando l’insegnamento dell’italiano come seconda lingua per i figli di immigrati di prima o seconda generazione, e comunque per tutti coloro che non parlano l’italiano nelle loro case, investendo, anche economicamente, su di loro per colmare eventuali gap di conoscenza e di espressività, allontanando così il rischio sempre concreto della creazione di classi ghetto o di un rallentamento generale del lavoro didattico. Come ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, l’immigrazione è un fenomeno da guidare e gestire naturalmente, ma senza dubbio ineludibile e soprattutto necessario, specie per un paese come il nostro che assiste da tempo a un drammatico depauperamento demografico.


Una riforma segnata dalla nostalgia per il vecchio stato nazione non serve a un paese moderno. Conoscere le vicende storiche italiane (ed europee) è fondamentale per creare quel legame sentimentale e quel senso di comunità capaci di trasformare i nostri figli in cittadini consapevoli: essere italiani oggi significa anche essere europei, e solo sentendoci pienamente italiani ed europei possiamo essere anche cittadini del mondo. Lo si può essere, lo si può diventare e lo si può sentire in tanti modi, provenendo da storie familiari e personali molto diverse tra loro, non però se si rinuncia alla dimensione del dialogo e del confronto con culture diverse dalla nostra, se non si impara a riconoscere e accogliere chi ha storie e radici lontane da noi. La dimestichezza con il diverso e il rispetto per l’altro si iniziano ad apprendere, per i più fortunati, tra le mura di casa ma si acquisiscono soprattutto nelle aule di scuola. L’insegnamento della storia può e deve essere parte fondante di questo progetto educativo.