Cosa insegniamo davvero?

La scuola in crisi. Che fine ha fatto la gratuità del processo educativo? Ribaltare le tre “I”

Sergio Belardinelli

Una scuola piegata alle esigenze della società. Impantanata in programmi e protocolli, rischia di perdere la sua vera missione: accogliere i giovani nel mondo con passione, amore e un’educazione che metta al centro la relazione umana

Con la riapertura, anche quest’anno sentiremo riproporre quasi sicuramente il tema della crisi della scuola: un’istituzione fondamentale come l’aria che respiriamo, ma sempre più ripiegata su se stessa, burocratizzata, estraniata dalla realtà e dal suo compito fondamentale, che è poi quello di aiutare i nuovi venuti a sentirsi a casa nel mondo dove arrivano senza averlo chiesto. Già, proprio così.

 

Qualsiasi cosa si faccia a scuola, specialmente in quella primaria e secondaria di primo grado, che si insegni la grammatica, le tabelline, la storia o la geografia, l’obiettivo primario dovrebbe essere quello di trasmettere ai bambini e agli adolescenti entusiasmo, curiosità, allegria, rispetto, serietà, fiducia, bellezza: un modo di dire loro benarrivati in questo mondo, vi aspettavamo a braccia aperte. E invece le nostre scuole sono come impantanate in programmi, progetti, schede di valutazione che non si curano minimamente di tutto questo. Anziché coltivare la gratuità di un processo che di per sé non serve a nulla, se non a diventare noi stessi, abbiamo preferito finalizzare l’educazione alle esigenze della società.

 

Ci ricordiamo le famose tre “I”: Inglese, Informatica e Impresa? La scuola deve servire a questo, deve servire a quest’altro, mettendoci dentro ognuno ciò che ritiene più importante. Ma in questo modo, lungi dal trarne qualche pur minimo vantaggio “sociale”, ci siamo allontanati ancora di più dalle poche e semplici evidenze elementari su cui, da sempre, si fondano tutte le vere relazioni educative: convinzioni profonde, passione, amore, esempio e, soprattutto, nessuna pretesa di essere padroni della situazione. Un progetto educativo non è, non può essere, un progetto tecnico; è un processo di generazione di una persona e quindi fondamentalmente gratuito, sempre esposto al rischio della libertà che ciascuno di noi è.  


“La vita è ciò che accade mentre stai facendo altro”, cantava John Lennon. Non sono sicuro che avesse ragione. Ma certamente ci sono buone ragioni per pensare che la cosa valga per l’educazione. Davvero questa accade mentre stiamo facendo altro. Se ci pensiamo bene, le persone che hanno influito di più sulla nostra vita lo hanno fatto grazie a ciò che, con l’esempio, con la parola, con uno sguardo, ci hanno insegnato implicitamente, non esplicitamente. Per questo è sbagliato trasformare l’educazione in un protocollo da seguire. Come ha scritto Cristina Petit in un libro bellissimo, pieno di autentica passione educativa (Non lasciamoli soli. Lettera d’amore a una scuola abbandonata, Solferino 2023), “ecco io vorrei una scuola delle Idee, dell’Immaginazione, dell’Intuizione. La scuola dell’Innovazione. Ma anche una scuola che contempli l’Impossibile ed esorti gli studenti a raggiungerlo, una scuola che comprenda l’Insicurezza e l’Incertezza e aiuti gli studenti a lenirla”. 

 
Una scuola insomma che sia capace di mettere al centro la relazione educativa, quella terra di mezzo tra insegnante e alunno, irriducibile all’uno o all’altro, asimmetrica, visto che le responsabilità dell’uno non sono mai le stesse dell’altro, imprevedibile nei suoi esiti e tuttavia misura certa della propria qualità. Insegnanti e alunni sentono benissimo quando tra di loro si è instaurata una vera relazione educativa; non c’è bisogno che siano gli esperti a dettare loro i criteri per stabilire se è buona o cattiva. “Tutto è possibile quando sentiamo di essere in relazione… Solo nella relazione tutto si può compiere. Le streghe e i cattivi – dice giustamente l’autrice – non entrano mai in relazione, rimangono di lato, possibilmente su un’altura, e muovono i pezzi in loro potere. La relazione invece è un prato, per correre avanti e indietro, ma sempre in piano: l’insegnante non è mai al di sopra, ma sempre a fianco”.


Ma, domanderà qualcuno, con i programmi come la mettiamo? Può la scuola prescindere dai cosiddetti obiettivi formativi legati all’acquisizione di specifiche competenze? Certo che no. Ma il bello di questo libro è che tali obiettivi sembrano talmente scontati da diventare il semplice pretesto per amare, appassionarsi agli alunni, aiutandoli soprattutto a essere felici. Con un’incredibile quantità di aneddoti anche commoventi, ci viene detto in sostanza che “la scuola è fatta di amore” e che “difficilmente i bambini non hanno voglia di fare qualcosa con una persona buona che la vuole fare con loro”. Chi non lo capisce farebbe bene ad andarsene. In ogni caso guai a trascurare l’unicità, la sacra fragilità dei bambini e degli adolescenti, elevandole magari a pretesto per esclusioni o per penose affermazioni di sé da parte di insegnanti stanchi, arrabbiati e frustrati.


Ho letto questo libro appassionato e appassionante pensando soprattutto a mio nipote che si appresta a fare la prima elementare. Come saranno i suoi insegnanti? E’ una domanda che si pongono tutti i genitori e i nonni di questo mondo. Per parte mia mi auguro che entri in una scuola che, insegnandogli a leggere, scrivere e far di conto, gli faccia scoprire la gioia di stare al mondo, di scoprirlo insieme agli altri, mettendo lui e i suoi coetanei al riparo, non dalla fatica, dalle incertezze e persino dalle ingiustizie, ma dalla paura.

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