l'analisi
Perché investire nelle università è una questione di interesse nazionale
Di fronte a un possibile nuovo declino dello status scientifico, industriale, politico e culturale del “vecchio mondo” e dell’Italia, è necessario riconoscere fragilità e problemi del nostro sistema universitario. Idee per superarli, senza ipocrisie
Comincio con alcune ovvietà di cui chiedo perdono ma che è indispensabile tenere presente per orientarsi. L’Europa occidentale, una piccola penisola dell’Asia, ha acquisito a partire dal XV secolo un’importanza assolutamente sproporzionata alle sue dimensioni e al suo peso demografico nel mondo grazie a una fioritura intellettuale e tecnica culminata nel Seicento nell’invenzione della scienza sperimentale, che le ha assicurato per tre secoli una posizione di incondizionato predominio. Da queste conquiste sono discese oppressione, sfruttamento e deliri di superiorità, ma anche un benessere che si è esteso e si sta ancora estendendo a tutti i continenti: grazie ad esse gli esseri viventi di tutti i colori vivono oggi di più e meglio, si spostano e comunicano più agevolmente, possono lavorare meno e meno pesantemente di un tempo, ecc.
Dei frutti della scienza e della conoscenza hanno quindi man mano goduto sempre più persone, e il luogo dove da inizio Ottocento questi frutti vengono prodotti sono le Università, ripensate allora da alcuni grandi intellettuali tedeschi come unione di ricerca e insegnamento dopo che l’estremismo rivoluzionario aveva spinto la Francia a chiudere le sue, minando la posizione del paese. Il modello tedesco, che ha posto le fondamenta del miracolo scientifico e tecnico in cui e di cui abbiamo vissuto, si è poi esteso nei decenni successivi a tutta l’Europa, Francia inclusa dopo la sconfitta di Sedan. Esso è arrivato in Italia con l’unificazione, quando l’élite risorgimentale riuscì a costruire in pochi anni un sistema nuovo e moderno che è stato uno dei motori del nostro sviluppo. In quello stesso periodo esso raggiungeva anche gli Stati Uniti, dove poco più di 100 anni fa il criterio per entrare nel ristretto club degli atenei migliori era la capacità di produrre studenti che le università tedesche avrebbero considerato ammissibili.
Nel corso del ‘900 il modello tedesco si è esteso progressivamente, evolvendo, a tutto il pianeta e l’Europa ha così perso sia il suo monopolio che il suo primato, passato nel secondo dopoguerra agli Stati Uniti. Oggi ci sono sistemi universitari che uniscono ricerca e insegnamento quasi ovunque e averne uno non basta più ad assicurarsi un vantaggio. La sorte e il futuro di tutti i paesi, e in particolare di quelli come il nostro che non hanno ricchezze naturali e possono quindi crescere e prosperare solo coi frutti del loro lavoro e della loro intelligenza, è quindi affidata al possesso di un sistema universitario capace di generare e diffondere conoscenze e competenze elevate, oltre che all’intraprendenza e ai talenti di singoli particolarmente dotati. L’Italia ha quindi un interesse nazionale ad avere il miglior sistema universitario possibile, e si tratta di un interesse primario nel senso letterale del termine, perché viene prima di altri, anche più pressanti socialmente e umanamente, in quanto soddisfarlo rende possibile soddisfare almeno in parte i secondi.
Le condizioni in cui versa la nostra Università, quel che va fatto per evitarne il decadimento e renderla se possibile migliore sono quindi questioni centrale per il paese e la politica. Due iniziative recenti, una appena conclusasi (gli Stati generali dell’Università promossi dalla Conferenza dei rettori) e una in corso (la revisione della Legge 240, la “Gelmini”, promossa dal ministro Bernini), sono l’occasione per fare il punto, individuando problemi e pericoli e, per quanto possibile, anche la strada da seguire.
Grazie alle scelte di fine Ottocento, l’Italia ha da quasi 150 anni, e vanta ancor oggi, un sistema universitario di livello medio-alto, legato a una rete di enti e istituti di ricerca di qualità equivalente e raggruppato intorno a un nucleo di 10-15 grandi università e alcune delle sue poche Scuole speciali superiori. Come ha ricordato sulla Stampa Giorgio Parisi, questo sistema nutre non solo una ricerca di qualità, che in alcune discipline tocca punte di livello mondiale, ma anche una formazione di altrettanta qualità, confermata dalla facilità con cui i nostri laureati migliori sono accettati in tutti i maggiori atenei e i più importanti laboratori del mondo. Esso forma inoltre matematici, chimici, ingegneri, medici, economisti, archeologi, storici dell’arte ecc. al passo con la ricerca mondiale, di cui si nutre la vita del paese.
La situazione odierna è tuttavia più complessa e pesante di quella, difficile, in cui fu varata nel 2010 la legge Gelmini. Ad essere afflitta da seri problemi era allora un’Università che quella legge, malgrado le difficilissime condizioni create dalla crisi del 2008, permise di riorientare verso qualità e apertura internazionale. Ciò fu possibile anche perché l’Italia, e l’Europa con essa, erano ancora abbastanza solide, benché fossero già operanti tutti i fattori della crisi in cui viviamo. Il crollo demografico e la crescita scientifica, tecnologica e industriale dei grandi paesi asiatici, e domani africani, sono per esempio con noi da mezzo secolo: le nascite in Europa andarono sotto il livello di riproduzione nei primi anni Settanta e le riforme di Deng Xiaoping e l’emergere delle “tigri” asiatiche risalgono alla fine di quel decennio.
Oggi, invece, a soffrire in modo manifesto è l’Unione europea nel suo complesso, e l’Italia con essa. L’Università ne risente e si possono affrontare in modo corretto i suoi problemi solo a partire dalla consapevolezza dell’entità della sfida che abbiamo di fronte e della posta in gioco, che è quella di un possibile nuovo, brusco declino dello status scientifico, industriale, politico e culturale del “vecchio mondo”, e in particolare dell’Italia, con quel che ciò vorrebbe dire in termini di sofferenze umane e sociali.
Una breve rassegna delle fragilità principali comprende il declino della posizione italiana nel mondo, un declino cominciato negli anni Novanta (ma preparato dai due decenni precedenti) e più accentuato di quello che colpisce il nostro continente nella sua interezza; una crisi demografica più grave di quella degli altri grandi paesi europei, Spagna esclusa; l’assenza di materie prime e risorse energetiche; un bacino linguistico limitato rispetto a quello di cui godono Spagna, Portogallo, Francia e ovviamente i paesi anglofoni, le cui università possono quindi affrontare con meno difficoltà la caduta degli iscritti legata alla denatalità; la grande difficoltà di costruire un sistema universitario in inglese, come ha fatto l’Olanda, se non in certi settori e a un certo livello; i problemi che minano il settore di punta della nostra istruzione superiore secondaria, quello che dovrebbe fornire all’Università i suoi studenti migliori.
Il nostro sistema universitario, e l’Italia con esso, rischia quindi di discendere di almeno un altro gradino, una decrescita che non è per definizione “felice” ma può essere sul breve-medio periodo più o meno veloce e dolorosa a seconda dell’intelligenza con cui la si affronta, e quindi rendere più o meno facile una ripresa futura. La prima cosa da capire è che in una situazione del genere occorre prima di tutto sostenere i settori più forti, quelli che tengono in piedi il sistema. E’ una conclusione che non è facile accettare e anche esplicitare – visto che verrebbe naturale dire aiutiamo prima i più deboli, come abbiamo fatto dopo il miracolo economico, diciamo dagli anni Sessanta in poi – ma che temo sia ancor più difficile contestare.
E’ inoltre altrettanto importante abbandonare narrazioni e visioni ingannevoli su cosa sia l’Università, che fanno danni ma sono ripetute in perfetta buona fede. Tre esempi possono bastare, ma non sarebbe difficile trovarne altri. E’ possibile sostenere, come talvolta si dice, che l’essenza dell’Università consista nel fornire ai nostri giovani una coscienza critica? Tale coscienza è naturalmente fondamentale, ed è compito di 13 anni di istruzione formarla. L’Università la può semmai affinare, ma essa resta prima di tutto e soprattutto il luogo dell’avanzamento delle conoscenze e di un apprendimento al passo con questo avanzamento.
Ed è possibile vedere nell’Università uno strumento di coesione sociale? Questo è parzialmente vero per il ruolo svolto nei territori da atenei che spesso ne sono tra le aziende maggiori e quindi ne sostengono la vita. Ma è essenzialmente falso, perché l’Università prima di tutto stratifica, determinando in gran parte i redditi di chi la frequenta e ne esce con una laurea triennale, magistrale o un dottorato che garantiscono posizioni diverse e diversamente pagate anche in relazione ai voti riportati e alla difficoltà delle discipline in cui sono ottenuti. Questo senza contare quelli che l’Università stratifica indirettamente, cioè i tanti che non riescono a entrarvi e non solo per motivi “sociali”, ma anche per difficoltà psicologiche o psichiche o più semplicemente perché non gli va e non gli piace studiare e intendono far altro. Più che produrre coesione sociale, l’Università di massa contribuisce quindi a posizionare i nostri giovani su gradini diversi della società, una verità dura ma che sarebbe sbagliato ignorare, anche per l’irritazione che quella che sarebbe comprensibilmente percepita come ipocrisia può generare in chi non vi entra o non arriva ai livelli superiori.
Anche la visione degli atenei come motore della crescita culturale e della diffusione della conoscenza in termini generali, pur sicuramente vera, non coglie l’essenza dell’Università. Quest’ultima può generare ricadute significative solo se fa avanzare le conoscenze e ne garantisce il miglior apprendimento possibile: è questa la sua fondamentale e primaria missione, da cui tutte le altre discendono. Se invece di far ciò essa si limitasse a insegnare cose già note e magari non ritenute più tali nei centri di ricerca più avanzati perché invecchiate, quella diffusione sarebbe positivamente dannosa, e questo in tutti i campi, dalla fisica alla storia. Anche gli spin off, di cui tanto si parla, sono – tranne alcuni casi eccezionali, noti in tutto il mondo – una quantità trascurabile che è importante sostenere, ma non rappresentano certo un fronte fondamentale.
Un discorso a parte merita quello dell’Università come ascensore sociale, legato a quanto si è detto sulla stratificazione: essa lo è e lo è stata, e moltissimo, quando scuola superiore e università erano riservate a pochi. La scuola superiore e l’Università di massa sono però oggi soprattutto un filtro che eleva alcuni e abbassa altri, a partire da chi non ce la fa a reggerla o non vuole farlo e da chi ne ascende questo o quel gradino con diverso profitto e successo. Ignorarlo, ripetere discorsi sulla possibilità di laureare tutti o quasi, evitare di ammettere la sostanza e le conseguenze di quel che facciamo quando bocciamo o mettiamo un voto più o meno alto ecc. rischia solo di innescare reazioni, psicologiche e politiche, i cui segni sono fin troppo evidenti perché valga la pena richiamarli.
Visioni altrettanto fuorvianti discendono da alcune interpretazioni della crisi demografica, dei suoi effetti e delle possibili risposte ad essa. Gli esseri umani non sono quantità fungibili. Tutti hanno pari dignità, ma sono evidentemente diversi: uno vale uno dal punto di vista morale ma non da quello dell’energia o della capacità di apprendimento. Pensare che l’Università possa reggere il calo demografico allargandosi a tutti senza pagare pegno è un’illusione.
Se è insomma giusto e ragionevole pensare a un sistema di istruzione terziaria superiore il più ampio possibile, perché affinare le proprie capacità e aumentare le proprie conoscenze è un bene sia per sé stessi che per la società, e questo a qualunque età (sarebbe quindi opportuno anche pensare a espandere la formazione permanente), occorre anche capire che se vogliamo un buona Università nel senso proprio del termine la qualità degli studenti che la frequentano non è una variabile irrilevante, anzi. Più in generale, occorre sempre dubitare di obiettivi quantitativi basati sul falso presupposto che si abbia a che fare con unità omogenee, e questa regola si applica anche, e soprattutto, a quell’indicatore sul “numero dei laureati” che viene tanto spesso evocato, dimenticando che ormai persino formalmente di “laureati” ve ne sono almeno di tre tipi (e se si pensa a quelli magistrali l’Italia non è per esempio messa male) e che la formazione di quei laureati non è ovunque di pari livello.
Una revisione della legge 240 è quindi opportuna e il ministro la ha affidata a un gruppo di lavoro aperto e rappresentativo, senza prevenzioni o esclusioni pregiudiziali (aggiungo subito che ne faccio parte anch’io, che abbiamo appena cominciato a lavorare e che quelle che espongo qui sono idee solo mie, anche se ho naturalmente profittato delle prime discussioni tra colleghi).
La varietà e la qualità di esperienze e punti di vista lasciano sperare che – sia pure con tutte le normali, comprensibili e necessarie mediazioni – ne potranno alla fine scaturire delle raccomandazioni capaci di permettere alla nostra Università di affrontare un passaggio così impegnativo.
Perché ciò avvenga penso sia prima di tutto necessario che maturi la coscienza di quel che è indispensabile difendere, vale a dire avanzamento delle conoscenze e loro insegnamento, e quindi ancora una volta ricerca e didattica di livello il più possibile avanzato e internazionale. Questo vuol dire oggi – lo ripeto perché è fondamentale – aiutare i forti per poter continuare ad aiutare i deboli, cioè assicurare la tenuta dei nostri migliori atenei e lo sviluppo della nostra migliore scienza e dei nostri più forti settori umanistici, sociali e giuridici, spingendoli ad aprire fronti nuovi e potenzialmente fruttuosi. Ciò non può che avvenire premiando apertura, mobilità e internazionalizzazione, che sono elementi imprescindibili di una qualità sempre danneggiata da chiusure, autarchie e provincialismi. Sarebbe anche per questo opportuno evitare di ripetere, e possibilmente emendare, alcune storture di un Pnrr che pur fornendo sostegno prezioso all’Università e alla ricerca italiane non le ha spinte con decisione sulla strada di una maggiore cooperazione internazionale, in particolare all’interno di una Unione europea che si costruisce anche modellando un suo sistema universitario e della ricerca integrato e non solo unito da pur indispensabili regole e norme comuni.
Un altro punto fondamentale è assicurare che assunzioni e promozioni del personale docente siano le migliori possibili, introducendo opportuni e forti incentivi affinché questo accada e rafforzando o correggendo quelli che già ci sono. Altrettanto importante è introdurre uno strumento agile e qualificato che permetta il passaggio dal dottorato (un dottorato di cui sarebbe importante ottenere il riconoscimento automatico a livello europeo, come succede per le lauree) alle posizioni tenure-track, che è il momento più delicato nella vita dei migliori giovani studiosi, che dovrebbero essere la pupilla dei nostri occhi. In passato ciò si è fatto con gli assegni di ricerca, purtroppo (malgrado non fossero perfetti) aboliti e sostituiti con una posizione assai costosa e formalizzata, che poche università si potranno permettere e che renderà ancor più difficile, per i suoi formalismi, l’arrivo in Italia di validi giovani studiosi stranieri. L’ideale sarebbe sostituire i vecchi assegni anche con borse post-dottorato almeno biennali su progetti proposti dai giovani studiosi stessi, borse dotate di opportune protezioni sociali e di un importo base, lasciando agli atenei la possibilità di bandirne di importo maggiore e quindi capaci di premiare i nostri giovani migliori e di attirare in Italia quelli europei e stranieri di qualità.
Sul piano amministrativo si possono aiutare gli atenei a pianificare il loro futuro su base pluriennale, garantendo così un certo margine di prevedibilità, e si può garantire loro maggiore elasticità di gestione, soprattutto dove vi sono risultati che lasciano sperare scelte oculate. Sarebbero benvenuti anche strumenti che incoraggino e facilitino l’aggregazione, a più livelli, degli atenei più deboli, senza lederne la dignità. E sarebbe opportuno ridurre controlli e vincoli, specie se ex ante, anche se certo non per gli atenei che non hanno dato prova di affidabilità, hanno i conti in disordine, o abbiano condotto politiche sbagliate di assunzione e promozione. Questo ridimensionamento dovrebbe applicarsi anche al nuovo sistema di valutazione e accreditamento (AVA), che pare troppo rigido, pesante e formalistico. Sarebbe infine importante riservare una quota dei fondi in modo stabile, visibile e competitivo a progetti di ricerca proposti da studiosi o gruppi di essi e a iniziative strategiche presentate dagli atenei o da loro articolazioni.
In ogni caso, per ciascuna delle misure immaginate andrebbero condotte – prima della loro adozione – simulazioni e sperimentazioni, anche indipendenti, e sarebbe opportuno studiare meccanismi di valutazione e controllo ex post abbastanza ravvicinati (per esempio su base biennale) che permettano di correggere o arrestare derive inattese e sbagliate prima che sia troppo tardi e costoso, e accertino i risultati delle ricerche e dei progetti finanziati.
L’Università vive infine per e dei suoi studenti: la loro qualità e quantità ne sono elementi essenziali ed è per questo necessario pensare ad una riorganizzazione complessiva dell’istruzione secondaria superiore e in specie al rinnovamento della fascia più alta. Al tempo stesso bisognerebbe impedire che continui ad aumentare la parte dei nostri diplomati – ahimè complessivamente sempre più pochi per ragioni demografiche – che trova negli atenei telematici soluzioni apparentemente meno impegnative e di maggior successo sul breve periodo. Questi atenei rispondono a una domanda di tipo particolare e svolgono una funzione positiva per il loro bacino naturale. Ma idee sbagliate e alcune caratteristiche del nostro mercato del lavoro e della nostra normativa ne ampliano impropriamente le dimensioni, producendo danni gravi.
Deve essere quindi spiegato con chiarezza che la didattica a distanza produce sempre risultati inferiori a quella in presenza, se quest’ultima è possibile, anche perché la seconda unisce all’apprendimento verticale docente-studente quello orizzontale tra pari, importantissimo, e perché ci sono interi campi di studio –in primis quelli sperimentali – che possono essere coltivati solo partecipando. Sarebbe perciò utile individuare, motivatamente, le classi di laurea riservate alle Università “tradizionali”; vagliare le lauree magistrali che possono farsi a distanza, posto che il carattere superiore dell’insegnamento magistrale presuppone quasi sempre attività seminariali o di laboratorio e l’elaborazione di una tesi seguita con attenzione dai docenti; e istituire requisiti stringenti per i dottorati di ricerca “telematici”, che sono stati di recente malauguratamente autorizzati. Contrariamente a quel che alcuni pensano, l’abolizione del valore legale non è una soluzione, anche perché è impossibile (solo per dirne una, i titoli italiani perderebbero di valore all’estero). E’ possibile invece muoversi verso la trasformazione delle lauree in requisiti necessari ma valutabili anche nei concorsi pubblici, e stabilire linee guida che guidino questa valutazione. Si potrebbe inoltre esplorare la possibilità di permettere la trasformazione in atenei in presenza delle telematiche che volessero seguire questa strada e superassero certi standard.
Il problema del numero e della qualità degli studenti si può naturalmente risolvere anche aumentando la capacità attrattiva del nostro sistema universitario. Contro questa soluzione giocano però la già ricordata assenza di un bacino linguistico italofono internazionale, le nostre tradizioni culturali e linguistiche e una normativa che pone stretti vincoli. Si potrebbe tuttavia sostenere un aumento sostanziale dell’offerta di corsi in inglese soprattutto a livello di lauree magistrali e dottorati di ricerca, garantendo percorsi di alto livello capaci di attirare dall’estero studenti di qualità elevata, e non studenti stranieri generici: anche in questo campo le persone non sono quantità omogenee, e non sarebbe saggio investire risorse per creare corsi mediocri frequentati da studenti bisognosi di sostegno.
La questione essenziale resta tuttavia quella di comprendere che c’è un interesse nazionale, vero e pressante, a sostenere avanzamento delle conoscenze e loro apprendimento e a perseguire questo obiettivo. Solo così, preservando e se possibile elevando lo status del nostro paese in questo campo cruciale, potremo vivere una vita migliore e procurarci le risorse per aiutare chi ne ha bisogno ma anche per difendere la nostra indipendenza, meglio se come membri di una più solida Unione europea e, nel caso peggiore, contando su noi stessi.
Bandiera bianca