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Altro che problema, le università telematiche aiutano la società a crescere e innovarsi

Carlo Lottieri

Un argine effettivo alla perdita di competenze e uno strumento che contribuisce a migliorare la qualità dell’offerta formativa. I dati lo dimostrano

"Colui che sorride quando le cose vanno male ha trovato qualcuno cui dare la colpa”, recita la “legge di Jones”, uno dei divertenti aforismi contenuti nel noto librettino di Arthur Bloch, "La legge di Murphy". A volte anche chi appare irragionevolmente aggressivo ha già trovato qualcuno a cui dare la colpa: e per Giorgio Caravale, autore di una lunga invettiva sul Foglio, se l’università italiana sta male la responsabilità sarebbe degli atenei telematici.

    

Si tratta di un’affermazione paradossale, visto che al momento le università online sono le uniche in grado di crescere a tassi sostenuti (hanno oltre 250 mila iscritti). In una società come quella italiana, in cui la formazione terziaria fatica ad attirare i giovani ed è segnata da una grave crisi demografica, questo dovrebbe essere considerato non solo un successo, ma un punto di partenza su cui costruire, oltre che un fattore di pluralismo.

    

Dovremmo infatti chiederci, anzitutto, perché le università telematiche stanno rafforzandosi mentre le altre no. Certamente non perché gli studenti si spostano dagli atenei tradizionali a quelli online alla ricerca di una laurea facile. I numeri lo smentiscono: in particolare, il voto medio dell’esame di laurea è significativamente più basso, dato che nelle telematiche soltanto il 28 per cento (contro il 49 per cento registrato dalle presenziali) consegue un voto superiore al 106/110. La crescita delle telematiche non avviene a spese delle università tradizionali, che a loro volta crescono seppure debolmente: se c’è pure una componente di “nomadismo”, in verità le telematiche stanno generando una nuova domanda. Questo è un dato confermato dall’identikit degli studenti, che sono mediamente più anziani e provengono perlopiù da aree disagiate, non di rado a basso reddito e scarsamente servite dalle università in presenza (più della metà risiede nel Mezzogiorno).

    

Se le università telematiche crescono, suggerisce Caravale, allora sottraggono risorse agli atenei tradizionali. E’ falso anche questo, anzi è doppiamente falso: sia perché le università online partecipano al Ffo in misura irrisoria (ricevono dallo stato poco meno di 2 milioni di euro su circa 9 miliardi di euro), sia perché in realtà i fondi messi a disposizione delle università ordinarie sono cresciuti nel tempo: da 7,5 miliardi pre Covid  agli oltre 9 miliardi attuali. L’aumento è ancor più significativo se è visto su base pro capite: siamo passati da circa 4.700 euro a circa 5.500 euro pro capite. In sostanza, le università tradizionali ricevono più trasferimenti e formano meno persone, mentre per le telematiche vale il contrario.

   

Chi vuole può certo sostenere che i fondi per l’università nel suo complesso siano insufficienti; non è possibile, invece, affermare che il canale online in Italia sia sovradimensionato. Visto che in questi giorni si discute molto su come recuperare il gap di crescita e capitale umano tra l’Europa e gli Stati Uniti, vale la pena ricordare che, a fronte del nostro circa 13 per cento di studenti che ricevono una formazione interamente online, negli Usa lo fa oltre il 30 per cento. O, se preferiamo un benchmark europeo, in Spagna lo fa il 19 per cento. Questi dati dicono che non solo gli strumenti formativi che gli atenei utilizzano sono diversi a seconda dei contesti, ma lo sono anche gli obiettivi che gli studenti intendono raggiungere quando si iscrivono a un corso di laurea. In particolare, mentre la popolazione si riduce e invecchia, è fondamentale riconoscere che lo studente non è più soltanto il giovane in uscita dalle scuole superiori, il quale è in grado di dedicare la totalità del proprio tempo agli studi in presenza, ma che ci sono anche altre tipologie di studenti: quanto meno se vogliamo un’università che sia utile a formare e allargare le competenze, e non un’istituzione autoreferenziale che rischia di avere la semplice funzione di occultare i dati reali sulla disoccupazione.

   

Interrogarsi, dunque, sulle condizioni dell’università italiana significa anzitutto prendere le mosse dalle sue deficienze e dai suoi punti di forza: e se ci si mette in questa prospettiva le università telematiche appaiono oggi un argine effettivo alla perdita di competenze e uno strumento che contribuisce a migliorare la qualità dell’offerta formativa. E lo fanno sia attirando nuovi studenti (che altrimenti non potrebbero accedere a corsi tradizionali: vuoi perché non possono permetterselo, vuoi perché sono lavoratori che intendono investire sulla propria formazione), sia apportando nuovi capitali che vanno ad aumentare, a carico dei privati, le risorse disponibili per la formazione.

   

Questo non significa, ovviamente, che la stessa qualità o quantità dell’offerta online non possano migliorare. Ma anche qui occorre avere una visione realistica, e non caricaturale, della situazione. In effetti, se gli studenti delle telematiche hanno mediamente caratteristiche diverse da quelli delle università tradizionali lo stesso non può dirsi dei docenti. I professori delle telematiche sono allo stesso livello di quelli degli atenei tradizionali, dato che hanno dovuto superare i medesimi scogli e ottenere le stesse abilitazioni. Anche sotto il profilo della ricerca, la performance degli atenei online è più che positiva, come attestano i 31 Prin ottenuti nel 2023 dalle università del gruppo Multiversity, mentre la sola e-Campus vanta 10 fra convenzioni e consulenze su Prin con università tradizionali.

   

Naturalmente si potrebbe ragionare a lungo su come migliorare ulteriormente gli strumenti attraverso cui il nostro ordinamento rileva, misura e premia la qualità della ricerca (fermo restando che, come si diceva, gli atenei online sostanzialmente non ricevono contributi pubblici). Questo deve pure tenere conto degli sforzi fatti negli anni per istituire un meccanismo di valutazione prima inesistente e ora allineato agli standard e agli obblighi europei. Soprattutto, bisognerebbe confrontarsi su come allargare gli spazi della competizione, invece che restringerli. Ragionare in questi termini, però, significa accettare una sfida positiva, riguardante l’intero sistema universitario.

   

Il confronto non può allora ridursi a questioni di bottega o rese dei conti tra atenei che hanno caratteristiche, obiettivi, modalità di finanziamento e funzioni diversi. Questo approccio non rende onore a nessuno e soprattutto non è utile. Siamo di fronte a una sfida che la ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, ha colto istituendo un tavolo al Mur non sulle telematiche, ma sulla didattica a distanza, riunendo tutti gli attori della formazione: non solo gli atenei online, quindi, ma anche gli atenei presenziali.

   

E’ fondamentale ragionare su come accordare la didattica (e non solo la ricerca) a una società che cambia ed esprime esigenze plurali. Una è quella degli studenti lavoratori, un mondo che per decenni è rimasto in ombra, ma che ora diventa sempre più importante, e non solo perché anche chi non ha avuto l’opportunità di laurearsi da giovane ha diritto a misurarsi con la formazione terziaria. Al contrario, le profonde trasformazioni in atto richiedono di fare il possibile per raggiungere la più ampia parte della popolazione, dotando tutti delle competenze necessarie a farsi strada in un mondo che cambia. E’ abbastanza bizzarro che proprio i formatori – cioè l’università – possano pensare di isolare loro stessi e i propri metodi da quelle innovazioni che pretendono poi di insegnare agli altri e a cui ritengono di preparare gli studenti. Che senso ha discutere di transizione digitale e poi rifiutarsi di esserne parte e trarne vantaggio? La digitalizzazione è un rischio, sempre; ma allo stesso modo è pure un’opportunità. In questo senso gli studenti degli atenei online possono contare su un sostegno costante e sistematico, dato tanto dal rapporto col docente quanto dalle applicazioni dell’intelligenza artificiale e dalla possibilità di ottenere un feedback sulle prestazioni ricevute. Ciò consente ovviamente di individuare i difetti o i limiti dei servizi erogati, correggerli e, in ultima analisi, contenere i tassi di abbandono.

     

Chi per decenni è stato negli atenei tradizionali e ora opera in una delle università telematiche ha ben chiaro che queste ultime non sono parte del problema: sono semmai parte della soluzione e rappresentano la concreta dimostrazione del modo in cui l’innovazione può essere messa al servizio degli studenti per aiutare la società a crescere. 

      

Carlo Lottieri
professore di Filosofia del diritto, Università Telematica Pegaso

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