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Atenei

Ecco che cosa serve per il futuro dell'università

Stefano Paleari

Difendere la qualità, trovare nuove forme organizzative e di finanziamento, alleggerire la farraginosità delle procedure valutative. Anche se quanto a risorse e opportunità, gli ultimi tre anni sono stati i migliori dal 2009

La discussione sul futuro dell’università, che si è nutrita recentemente del contributo di due esimi studiosi, Andrea Graziosi e Giorgio Caravale, merita una riflessione sui tanti aspetti sollevati. Entrambi, pur partendo da orizzonti storici differenti, esprimono seri timori sul futuro dell’università italiana. I riferimenti storici di Graziosi sono del tutto condivisibili, così come l’idea che un paese come il nostro, privo di materie prime materiali e vocato all’export, debba vedere nel sapere e nelle sue università quell’unica materia prima immateriale (un tempo si diceva “grigia”) che può farlo competere nel nuovo contesto internazionale e salvarlo da un sicuro declino. Anche le diverse preoccupazioni sollevate da entrambi gli autori sono temi di discussione che vanno affrontati con la massima serietà

Tuttavia, prima di entrare nel merito, occorre fare riferimento a qualche numero, capace di fotografare lo stato dell’università sotto il profilo del sostegno economico dato dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni e da quello attualmente in carica. E’ noto come, sia in termini di pil, sia in termini di produzione industriale, l’Italia, a differenza di Francia e Germania, debba ancora riprendersi dalla crisi mondiale del 2008-09. Un biennio importante che, per l’università italiana statale, ha significato il raggiungimento del picco nel finanziamento pubblico e anche nel numero di docenti e di ricercatori. Il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) nel 2008-09 viaggiava sopra i 7 miliardi di euro e il numero di docenti era pari a circa 60.000 (18.000 ordinari, 17.500 associati e 24.500 ricercatori a tempo indeterminato).

Già nel 2010, l’Ffo scendeva di oltre 200 milioni e progressivamente si è arrivati ai 6,7 miliardi del 2013. Il numero di docenti raggiungeva nel 2015 il minimo del nuovo secolo con 51.000 unità, una riduzione conseguente il calo dei finanziamenti e ottenuta per mezzo sia del blocco del turnover sia delle dinamiche stipendiali. Solo alla fine del 2019 l’Ffo raggiungeva il valore nominale del 2009. Nel 2022 si saliva a 8,6 miliardi, poi 9,2 nel 2023 e 9,0 nel 2024. In termini di numero di docenti, a fine 2024 la soglia delle 60.000 unità di fine 2008 è stata ripresa con 16.000 ordinari, 26.000 associati e 18.000 ricercatori di tipo A e B e a tempo indeterminato. Per l’anno in corso, l’Ffo è previsto in crescita a 9,4 miliardi, il valore nominalmente maggiore di sempre. E’ pur vero che l’inflazione del periodo considerato riporta il valore reale ancora sotto il 2009 e che è terminato il “piano straordinario di reclutamento dei ricercatori, ma nel frattempo è intervenuto il Pnrr che, per le università statali, ha significato 11 miliardi di finanziamenti aggiuntivi per la ricerca e il reclutamento, distribuiti su 5 anni e che si concluderanno nel 2026. Queste risorse sono andate a finanziare attività core per l’Università, dall’orientamento, ai Prin, alle chiamate esterne, al reclutamento di dottorandi e ricercatori, agli acquisti di infrastrutture, alle borse di studio (in quantità e valore unitario), agli studentati.

Da ultimo, al rimborso dei cosiddetti mesi/persona dei ricercatori coinvolti nei progetti, che valgono per gli atenei circa 400 milioni all’anno di risorse aggiuntive e non vincolate. I numeri dei finanziamenti e quelli del personale al momento, quindi, non ci permettono di dire che siamo in presenza della scelta politica di definanziare il sistema universitario, nonostante la situazione di finanza pubblica di un paese ad alto debito come l’Italia. Anzi, proprio nell’anno migliore, il 2025, l’università è chiamata a dire come vuole proiettarsi nei prossimi anni. La commissione di riforma della legge 240, istituita dal ministro Bernini e a cui partecipano i rappresentanti delle varie istituzioni accademiche di docenti e studenti (dalla Crui, all’Afam, all’Anvur, al Cun, al Cnsu), ha proprio il compito di sottoporre al ministro proposte per il futuro dell’università, dai processi di reclutamento alla struttura del finanziamento. In sintesi, da un punto di vista finanziario e delle opportunità per i ricercatori, gli ultimi tre anni sono stati i migliori dal 2009. 

 

Condivisibile, invece, il ragionamento di Graziosi che sottolinea come, nel confronto internazionale, l’Italia resti fanalino di coda. Questo però è un punto su cui discutiamo da decenni. Basta prendere il bilancio di un’università al top nei ranking (ma non solo) per rendersi conto che il suo finanziamento, derivante dal pubblico e dalle rette universitarie, è una frazione importante del finanziamento di tutte le università italiane. L’Inghilterra, con quasi 10.000 euro di tasse per studente inglese (tutti gli altri, europei compresi, pagano ben di più), ha entrate da contribuzione studentesca pari a 100 milioni ogni 10.000 unità. E’ come dire 1 miliardo per i 100.000 studenti della Sapienza. Su questo sarebbe giusto aprire un dibattito, difendendo ancora una bassa contribuzione studentesca e un più forte finanziamento pubblico, ma attivando anche forme organizzative e di finanziamento innovative. Non dimentichiamo che i finanziamenti aggiuntivi degli ultimi anni hanno permesso alle università, nella loro autonomia, di approvare una no tax area per la contribuzione studentesca ben superiore a quella introdotta nel 2017 dallo stato. Con il risultato che, oggi, la quota di studenti esenti, è superiore al 40 per cento a fronte di poco più del 10 per cento di un decennio fa.

Se vogliamo competere con le migliori università internazionali, quindi, dobbiamo  fare delle scelte e qui sia Graziosi sia Caravale discutono circa la necessità di finanziare maggiormente solo alcuni atenei. Idea non nuova che, se lasciata sola, rischia però di divaricare il sistema ancor più di come è oggi. Per questo, oltre al supporto dei migliori, devono attivarsi forme di gemellaggio, o sistemi hub&spoke come quelli sperimentati con il Pnrr, per finanziare la qualità dell’offerta e le collaborazioni, raggiungendo le dovute masse critiche e utilizzando la qualità diffusa dei nostri atenei, anche di quelli ritenuti “minori”.

 

             

 

Oltre al tema finanziario, altri due sono i temi affrontati da Graziosi e Caravale: il tema delle telematiche e della qualità della didattica, e la burocratizzazione del lavoro universitario. Sul primo punto, inutile piangere sul latte versato, almeno fino a quando la laurea ha valore legale. E forse, a mio parere, è bene che non lo perda anche in futuro. Le università telematiche sono nuovi attori nel sistema e lo sono grazie allo sviluppo negli ultimi anni delle nuove tecnologie digitali; tuttavia, le telematiche non detengono il monopolio delle tecnologie digitali e non proibiscono alle università storiche di attivare percorsi innovativi e ibridi, come peraltro molti atenei stanno già facendo. Ciò che più preme, viceversa, è la difesa della qualità, come giustamente sottolineato dai sopra citati autori, e non tanto il solo numero di laureati.

Su questo punto, cerchiamo di non rincorrere acriticamente la media europea nel tasso di laureati. In Italia, le regioni con meno laureati sono la Lombardia e il Veneto, e la Germania non è lontana dai livelli italiani malgrado il sistema molto diffuso delle fachhochschule. Servono certamente tanti e più laureati ma sempre di qualità. Non possiamo dire, come afferma Caravale, che “il flusso dei finanziamenti dell’ultimo decennio ha privilegiato la quantità rispetto alla qualità”. Seguendo un tal ragionamento verrebbe paradossalmente da dire che la qualità risulti favorita solo da minori finanziamenti. Come difendere la qualità è il vero tema di oggi e, in questo, concordo con i due studiosi sul fatto che l’insegnamento e la ricerca debbano essere seri e approfonditi, che gli studenti vadano seguiti e preparati a dovere. Ogni sforzo per difendere la qualità, combattendo il concetto della “laurea facile” e del “pezzo di carta”, deve essere valorizzato anche discutendo dei limiti pedagogici e di diaspora sociale dell’insegnamento solo a distanza.

Puntare sulla qualità non vuol dire, tuttavia, caricarsi di fardelli burocratici. Giusto sottoporre a verifica le proposte didattiche degli atenei ma ricordiamoci che sono le scelte degli studenti a determinare il successo delle stesse; giusto anche valutare la capacità di ricerca ma senza trasformare i ricercatori in macchine per la produzione (questo sì) di pubblicazioni (che “prodotti” non sono ma tesi scientifiche supportate dal metodo); giusto, infine, valutare i docenti ma l’idea di farlo allo stesso modo dai 30 ai 70 anni è contro ogni buon senso. Eppure oggi è così, c’è una deriva burocratica sorprendente e demotivante.

Difendere la qualità vuol dire oggi alleggerire la farraginosità delle procedure valutative. Questo, tuttavia, senza tornare a un passato non lontano nel quale una crescita quantitativa e non valutata ha prodotto un’immagine di università poco responsabile verso la società e financo elitaria. 

E gli atenei migliori si aiutano offrendo non solo maggiori finanziamenti ma anche governance nuove e maggiore flessibilità di azione per chi intraprende percorsi di qualità tanto nella didattica quanto nella ricerca. L’uso di risorse pubbliche non può diventare per ogni cosa un freno all’esercizio di una vera autonomia responsabile. Mi pare che sia proprio questa la richiesta che arriva forte dalle università e sulla quale occorre dare una risposta.

Sul tema della dicotomia tra scienze dure e humanities credo che valga la pena leggere la riflessione recente di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Pur in un contesto nel quale è necessario che gli studenti siano formati tanto nel campo delle humanities quanto in quello del metodo scientifico, è forse giusto chiedere quale tipo di valutazione meglio si addica alle discipline cosiddette non bibliometriche. Le proposte in questo senso sono il modo migliore per avviare una discussione. Così come, a mio parere, nei settori bibliometrici, un conto è distinguere fra un h-index di 5 e di 50 all’interno dello stesso settore, altro conto è dire che un ricercatore con h-index di 25 “vale la metà” di uno con 50, senza entrare nel merito. Nella pubblicistica si possono infatti dire poche cose importanti oppure tante cose insignificanti. Ciò premesso, qualcosa bisogna pur dire dentro la comunità scientifica per farne parte.

Ai ricercatori va lasciato, infine, uno “spazio libero”, dove alimentare ciò che più appassiona. Il tempo libero per un ricercatore non è quello lontano fisicamente dall’Università ma quello del libero pensiero, della sfida, della provocazione, dell’utopia. Questo spazio è esso stesso una misura del grado di democrazia dell’istituzione e della società. Quando tutto ciò che si fa è finalizzato alla sola utilità immediata, è facile divenire mezzo di un fine ignoto e comunque stabilito da altri. 

Infine, la discussione sull’università non deve dimenticare gli studenti, essenza stessa dell’istituzione. Ogni sforzo per orientare gli studenti e le loro famiglie alla scelta migliore, per difendere il valore dei nostri laureati, per sottolineare il grande ruolo dell’università verso la società tutta e verso il paese nei nuovi equilibri geopolitici, va fatto insieme al ministro e al governo, scevri da ogni pregiudizio. Tutti saremo giudicati dai fatti. Evitiamo dunque i processi alle “non intenzioni”. L’errore più grave, infatti, è piegare l’analisi sull’università alle logiche di una sterile battaglia politica, che si nutre dell’uso abnorme della retorica e dimentica sia la realtà dei numeri sia il coraggio della proposta.


Stefano Paleari
L’autore di questo articolo è consigliere per l’attuazione del Pnrr del ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini.

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