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Foto LaPresse
Didattica
Imparare a memoria? Perché no: aiuterebbe a “tenere nel cuore” un tesoro
La poesia e le nuove indicazioni nazionali per la scuola, per mantenere alta l'attenzione sulla dimensione “affettiva” della conoscenza e accompagnare gli studenti a scoprire che il segreto racchiuso in quei versi
“Più volte m’è accaduto di addormentarmi con alcuni versi o parole in bocca, ch’io avrò ripetute spesso dentro la giornata”: in alcune righe nascoste tra le fittissime pagine dello Zibaldone Giacomo Leopardi accenna all’esperienza di richiamare alla mente, sulla soglia del tempo notturno, frammenti di poesie, e poi al mattino risvegliarsi “ripetendo gli stessi versi”. Ci si interroga, sulla scia dei recenti riferimenti alle nuove indicazioni nazionali per la scuola, sulla consuetudine di far imparare a memoria le poesie, si dibatte su quale sia il valore di una scelta che porta con sé quesiti – tanto più legittimi quando si tocca l’ambito estetico – sul modo adeguato di offrire agli studenti qualcosa di così delicato e prezioso. Il focus del problema sta, probabilmente, nel fatto che l’ammirazione per la bellezza non è qualcosa che si può imporre (gettare sopra), ma solo proporre (mettere davanti): ciò che è in gioco, attraverso la capacità che l’insegnante ha di comunicare (cioè portare in dono), è dunque la libertà dell’allievo.
E’ bene perciò domandarsi che cosa può mettere in movimento questa libertà, quale proposta è in grado di accompagnare gli studenti a scoprire la bellezza di un ambito che, quando ridotto alla ripetizione di dati biografici o a un freddo esercizio di memoria, è destinato a perdere ogni fascino. E’ importante, in altri termini, che la scuola mantenga l’attenzione sulla dimensione “affettiva” della conoscenza, quella che conduce ogni alunno a domandarsi: che cosa c’entra con me ciò che mi viene proposto? Solo qui può nascere quel sano protagonismo che, ponendo al centro il soggetto, diviene sorgente di ogni interesse (letteralmente ciò che sta “in mezzo”, fra il soggetto e l’opera che egli osserva). Dobbiamo accompagnare gli studenti verso l’ipotesi che in quelle parole ci sia qualcosa per loro, mostrare che la poesia ci conduce a uno sguardo più autentico verso le cose, portarli a scoprire che il segreto racchiuso in quei versi (capaci di riemergere proprio perché imparati a memoria) può sorprenderci nei frangenti più inaspettati, svelandoci d’un tratto la profondità di un frammento di vita, rendendo più chiaro il nostro rapporto con noi stessi, insegnandoci a cogliere la densità di un istante, mostrandoci un inaspettato stralcio di verità.
La poesia ci pone in una condizione – per usare un’espressione di Peter Handke – di “intensa vigilanza”, ci permette di aprire “un varco verso gli spigoli luccicanti della vita”, ci invita a perforare la cortina di apparenza che rende le giornate tutte uguali, ci insegna ad affinare lo sguardo fino a cogliere quella che Mario Luzi genialmente chiamò “l’immensità dell’attimo”. Non serve a nulla, come dichiarò ironicamente Montale ricevendo il premio Nobel (“Io sono qui perché scrivo poesie, un prodotto assolutamente inutile”), non manifesta alcuna “utilità” relativa a ciò che è misurabile nella miope concezione di una didattica orientata in senso professionalizzante; è attraverso il tempo dedicato alla pura dimensione estetica che la scuola mette a fuoco il suo obiettivo principale e, oseremmo dire, unico: la crescita della persona in quanto tale. “Nell’incontro con l’arte – ha scritto Hans-Georg Gadamer – vediamo attuarsi un’esperienza che realmente modifica colui che la fa”.
Ma è necessario che sia davvero un “incontro”: gli studenti non possono affezionarsi a un testo se in primo piano è posta la sua analisi (che deve essere fatta, certo, ma solo come strada alla familiarizzazione con l’opera in sé). L’unica speranza sta nello scoprire che quei versi parlano di noi, che quelle parole possono illuminarsi nuovamente e, rivestite dell’espressione sempre nuova di chi legge, svelarci un frammento sconosciuto dell’esistenza. Ben venga, allora, l’imparare a memoria, se è per ricordare, cioè – letteralmente – “tenere nel cuore”. Allora ne varrà davvero la pena. Per custodire, anche mnemonicamente, un tesoro che, consegnatoci dal passato, può aiutarci a guardare più profondamente il presente.