
(Ansa)
la lettera
I nuovi contratti di ricerca del Mur non sono affatto una soluzione al precariato
La transizione dagli assegni ai contratti di ricerca ha aumentato i costi e le incertezze per i giovani studiosi, senza garantire reali prospettive di stabilizzazione. Serve una riforma strutturale e inclusiva per valorizzare davvero la ricerca in Italia
Al direttore – Dall’entrata in vigore dei contratti di ricerca, introdotti dalla legge n. 79 del 29 giugno 2022, ci capita sempre più spesso di ascoltare le preoccupazioni di tanti giovani neolaureati o neodottori di ricerca, i quali si trovano a navigare tra opportunità e difficoltà, tra regolamenti e necessità pratiche, tra progetti da realizzare e ostacoli burocratici. Un limbo professionale che limita, e molto, l’accesso al lavoro e ostacola la crescita di tanti giovani ricercatori. Questa situazione alimenta l’esodo dei più qualificati verso paesi con maggiori investimenti nella ricerca.
L’abolizione degli assegni di ricerca e la contestuale attivazione dei contratti di ricerca (di qui in poi AdR e CdR) rappresenta il passaggio da forme parasubordinate al lavoro subordinato. Recentemente, il Mur ha pubblicato un bando da 37,5 milioni di euro aperto agli enti pubblici di ricerca: finanzierà 369 CdR, un numero certo, ma esiguo. E’ doveroso riflettere su quanto questa riforma possa rispondere alle reali esigenze di chi ha maturato l’aspirazione a dedicarsi alla ricerca. Alcuni giovani studiosi hanno espresso motivate preoccupazioni con una lettera aperta alla Ministra Bernini, pubblicata su “Scienza in rete” e sottoscritta da oltre 500 persone. Secondo quanto riportato dall’Ansa, la Ministra ha espresso l’intenzione di incontrarli.
Anche su questo giornale, l’8 aprile, Luca Roberto ha scritto un contributo sul tema.
Aggiungiamo le nostre considerazioni.
1. Il CdR costa molto più dell’AdR. La capienza economica richiesta è spesso eccessiva per i progetti che in precedenza sostenevano AdR. Molti fondi non basterebbero nemmeno a coprire il solo costo del CdR, lasciando scoperti gli altri aspetti del progetto.
2. Il CdR è fiscalmente più oneroso. Mentre l’AdR prevedeva il versamento alla gestione separata Inps ma senza Irpef, il CdR è soggetto sia a Irpef che Irap. A parità di costo lordo, l’AdR garantiva un netto più alto. Si rischia che, aboliti per legge gli AdR e non potendosi permettere i CdR, università ed enti ricorrano a borse prive di tutele, peggiorando la situazione.
3. La didattica resta un punto controverso. Sembra che il CdR consenta incarichi di insegnamento come contratti esterni, ma tutto resta affidato alla discrezionalità di atenei e dipartimenti. L’esperienza didattica è però criterio importante nei concorsi per Rtt (l’unico tipo di ricercatore rimasto). Si rischia di rendere più incerto il percorso di preruolo.
4. I numeri sono insufficienti. Come denunciato dai giovani ricercatori, il numero di CdR sarà limitato a causa del costo. Essendo disponibile solo questa forma contrattuale, si avvantaggia chi ha già alle spalle esperienze come AdR o Rtd-A, e si lasciano fuori i più giovani. Molti saranno costretti a ripiegare su altri lavori, anche all’estero. E’ urgente individuare strumenti che consentano a questi ricercatori di continuare la propria formazione. In questo senso, il disegno di legge 1240, pur perfettibile, può essere una buona base di discussione.
5. Il CdR non sostituisce pienamente il Rtd-A. I contratti Rtd-A, aboliti dalla legge 79/2022, avevano un costo paragonabile al CdR a tempo pieno, ma garantivano maggiore indipendenza, accesso alla didattica e un chiaro orientamento verso la carriera accademica. I CdR, invece, appaiono più adatti a ruoli tecnici all’interno della Pa, con minore autonomia e legati a progetti rigidi.
6. Stabilizzazione: un miraggio. Terminato il CdR, l’unico sbocco è la competizione per posizioni di Rtt o professore, percorsi che restano irrealizzabili senza un piano serio e finanziato di reclutamento stabile nelle università e negli enti pubblici di ricerca.
Per tutto questo, definire il CdR come “superamento del precariato” ci sembra poco realistico. La subordinazione formale del contratto, il numero limitato di posti a tempo indeterminato e il significato stesso di precariato applicato al periodo post-dottorale non giustificano tale etichetta, che appare più un artificio retorico che una soluzione strutturale.
Elisabetta Cerbai, Università di Firenze
Antonio Musarò, Sapienza Università di Roma
Michele Simonato, Università di Ferrara