Quando eravamo azionisti
La composizione del portafoglio degli italiani dal 1950
Guardo la composizione degli asset delle famiglie italiane dal 1950, illustrata di recente dalla Banca d’Italia, e noto con sorpresa che mai più, dopo il 1960, gli italiani ebbero una quota così rilevante di azioni sul totale dei loro attivi. A partire dal 1950, quando ancora poveri e di cultura contadina tenevamo più del 60 per cento dei nostri risparmi in banca o in contanti, il capitalismo ben temperato del dopoguerra trasforma gli italiani in impavidi azionisti che spostano il denaro dalle banche e lo portano in borsa. Sono i miracoli della crescita di quegli anni, che non rivedremo più. Poi l’incantesimo si rompe. Già nel 1965 la quota di azioni sul totale crolla e risalgono i depositi. Eppure erano ancora gli anni del boom, mi dico. Ma poi mi torna in mente un vecchio libro che raccoglie le memorie di Guido Carli, dove l’ex governatore della Banca d’Italia, lamentava la nazionalizzazione del mercato dell'energia elettrica e la nascita dell’Enel che, a suo dire, aveva distrutto il nascente mercato azionario italiano, trasformando di fatto l’impavido piccolo investistore in qualcos’altro. Forse aveva ragione, forse no. Ma d’altronde quelli erano anche gli anni dell’Iri di Giuseppe Petrilli e dello Stato interventista. Il mercato diventava fuori moda e così la passione per il capitalismo. Dieci anni dopo, nel 1975, gli italiani, nel pieno della bufera dell’inflazione a due cifre, tornavano a depositare il loro risparmio per il 70 per cento nei conti correnti o lo tenevano liquido. Più di quanto facessero nel 1950. La passione per il capitalismo dura poco se lo Stato gli fa concorrenza.