Playboy, Hugh Hefner e la rivoluzione moderna del nostro erotismo
E' morto a 91 anni il fondatore della rivista "per soli uomini"
Roma. Il dicembre del 1953 è confine temporale. Una cesura netta tra quel che immaginavamo prima e quel che avremmo iniziato a immaginare in seguito. E’ la data dell’uscita del primo numero di Playboy, di quelle 53.991 copie che affiancavano il corpo delle donne, messo a nudo, a letteratura e riflessioni su società, costume, sesso, nella sua concezione di erotismo. Non di pornografia. Fu rivoluzione, non solo editoriale, ché di pubblicazioni sconce ce ne erano e parecchie, ma soprattutto d’immaginario. Perché se l’erotismo è stato da sempre filone letterario ricco, ma da sottobanco, fu con l’azzardo di Hugh Hefner a divenire mainstream. L’editore è morto ieri a 91 anni. Il suo lascito però non è solo copertine e conigliette, ma un nuovo mondo figurativo.
Playboy è diventato nome, marchio, epiteto di un mondo che abbraccia tutti i corpi nudi delle donne ritratti in fotografia. E’ diventato immaginario condiviso. L’erotismo di un tempo, fatto di esperienze personali, si è trasformato con la rivista in uno scenario comune, fatto di seni e fondoschiena patinati.
“Tropico del Cancro sarebbe stato diverso, più stereotipato probabilmente, decisamente più sexy”, scrisse Henry Miller all’editore Barney Rosset, parlando del suo cambiamento di stile di scrittura in “Nexus” (uscito nel 1959), l’ultimo libro della trilogia Rosy Crucifixion. Una trilogia che è quasi un’autobiografia della sua vita amorosa, ma che subisce un parziale colpo di coda stilistico. “Mi sono ritrovato cambiato, quasi che i corpi di donne che ho visto in quel bel giornaletto abbiano confuso i miei ricordi”. Perché quel bel giornaletto modificò, silenziosamente, parte dell’immaginario della società. Nel 1969 Miller, commentando la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, disse al Washington Post: “I ragazzi non stanno dicendo nulla di nuovo. Negli anni Trenta iniziammo quello che si sta verificando ora. Ma è stato Playboy a far diventare di tutti quello che era per pochi: sesso ed erotismo”. Due anni dopo lo scrittore iniziò a collaborare con Hefner.
Non furono infatti solo le donne in copertina e nelle pagine interne a cambiare il rapporto dell’America con l’erotismo. Ci pensarono anche molte delle migliori penne di quegli anni. Ci pensò soprattutto Hefner, cercando di puntare su quel compromesso tra alta cultura e godimento visivo. Già dall’inizio: nei numeri 2, 3, 4 uscì a puntate Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Poi tutti gli altri: da Updike a Lessing, da Nabokov a Vonnegut.
Scrisse nel 1975 William Burroughs: “Playboy segnò le generazioni più di quanto riuscì a fare la Beat Generation. Noi abbiamo provato la rivoluzione, la rivista ha cambiato l’immaginazione”. Qualcosa che constatò anche il pittore Alberto Vargas nel 1979 all’Nbc: “Il nostro immaginario sessuale, prima della diffusione della tv, è stato segnato da Playboy. Nulla prima della rivista è riuscito a creare un modello di piacere così largamente condiviso”. Insomma, “pensate a Marilyn e a quanto è stata sognata. Non era più bella di altre, ma le sue tette in copertina sono diventate emblema della sensualità. Avrei iniziato a scrivere se non ci fosse stato Playboy? Probabilmente. Avrei scritto quello che ho scritto? Probabilmente. Avrei amato le stesse forme di una donna? Non credo”, scrisse Charles Bukowski al mistico Manly Palmer Hall.
generazione ansiosa