Donne en colère con le donne vittime
Una ha scritto “L’inceste”, autobiografico. Un’altra “Parler”, sul dovere di denunciare. In tv fanno a pezzi Fillon, tra loro litigano. Ma il dolore non ha genere, perché l’identità femminile deve sempre essere un problema? C’è anche la Aspesi
Tutti soffriamo. Anche le donne soffrono. Ma come gli uomini, o i maschi, non troppo diversamente. Il dolore non è una questione di genere. E’ ermafrodito, se volete, sebbene la riprovazione per i comportamenti sessisti e molestatori sia invitante, promettente, appare come una chiave per chiudere la porta a vecchie modalità di sottomissione, ineguaglianza, discriminazione predatoria. La retorica della sofferenza femminile deve imporsi dei limiti di gusto. Harvey Weinstein è un porco patologico, così sembra, ma andare in camera sua è un atto complesso in cui si fondono desiderio di carriera e dignità femminile, e il sofà del produttore, il casting couch, non l’ha inventato lui e non riguarda solo lui, né solo i maschi. L’ostentazione del trauma di una donna insidiata non deve avere un’intonazione intimidatoria. Non deve prestarsi a incerti amalgami, per cui alla fine va sotto processo, con la porcaggine e la prepotenza, anche la galanteria, divenuta sessista nella psicologia politicamente corretta di gran parte del mondo occidentale d’élite. Lo stesso discorso sulla dignità del dolore e sulla sua espressione non ricattatoria vale per gli afroamericani in un mondo di bianchi, che può rivelarsi orrendo. Vale per certi avvilimenti delle minoranze religiose, i musulmani in certi casi, perché no?, e i cristiani, che pagano con il cosiddetto ecumenismo del sangue la loro stessa esistenza in tante parti del medio oriente. Soffrono i bambini, nati e non nati. I poveri, naturalmente. I vecchi. I gay. I diversamente abili. E anche i ricchi piangono, com’è noto.
I francesi hanno una predilezione per la figura della femme en colère. Una di queste è Christine Angot, autrice diciassette anni fa de “L’inceste”, un libro autobiografico, che ha fatto molto rumore, su uno stupro da lei subìto. Alcuni la amano. Altri la considerano istrionica, confusa, e attribuiscono ai suoi famosi incontri di pugilato televisivi il suo successo letterario (infatti vendette molto). Il penultimo incontro di boxe era stato con François Fillon in campagna elettorale: lo aveva spianato con immensa cattiveria, tanto da sollevare obiezioni perfino nella gauche per lo stile ruvido, definitivo, assertivo, con il quale aveva affrontato un uomo intimorito e già molto indebolito dallo scandalo familista che gli aveva tarpato le ali. L’ultimo match è stato con Sandrine Rousseau, una parlamentare ed ex portavoce dei Verdi che ha scritto un libro, “Parler”, sul dovere di denunciare le aggressioni sessuali di cui si è vittima. Infatti nel 2016 Sandrine e altre avevano accusato un deputato, Denis Baupin, di aver fatto il gallo in modo pesante con loro in un non recente passato (la faccenda è finita in prescrizione). Un’altra femme en colère, la giornalista e ideologa di Causeur, Elisabeth Lévy, aveva sfottuto le accusatrici, difendendo con un certo stile ironico il corteggiamento anche pesante di Baupin e ironizzando sul turbine di risentimento che aveva colto le sue collaboratrici. Il 30 settembre la Angot è esplosa con Sandrine Rousseau in uno studio tv, scene, abbandono dello studio, linguaggio duro, “ma sbrigatevela!”, insomma che non stiano a far tanto le santarelline. Detto da lei, e in quel modo, una bomba.
Poi si è spiegata con più calma. Personalmente ne ha abbastanza della continua richiesta rivolta alle donne di rivendicare la loro sofferenza. Lavoro, affari domestici, cura dei bambini, sesso, seduzione, età, lei dice di non poterne più di tutta la tiritera delle lamentazioni. C’è altro da dire delle donne, sostiene. Altro che non sia il solito “quant’è duro essere donna”. Quanto all’aggressione sessuale, lei che avrebbe voluto morire piuttosto che sopravvivere allo stupro paterno, bè, lei dice che rivendicare lo statuto di vittima non deve essere un’ambizione. Quand’era piccola era felice di essere una ragazza, e prova ancora la stessa gioia. Perché l’identità femminile deve sempre essere considerata un problema? Perché questa continua richiesta infantilizzante e ridicolizzante d’aiuto?
Bè, sono discorsi duri, ovvio, en colère. Ma è chiaro che circolano dubbi in ogni ambiente, se la patronne del giornalismo corretto in Italia, la illustre Natalia Aspesi, ha creduto giusto, scusandosi su Repubblica di quanto stava per fare, di mettere in discussione nel modo più sbrigativo la retorica della sofferenza delle vittime di Harvey Weinstein: “Ma perché hanno aspettato tanto a denunciare?”. Il sospetto non è l’anticamera della verità, chiaro, ma insomma, va detto, e lo dicono donne in collera, lo scandalo di Hollywood rivela un lato oscuro della vittimizzazione femminile.
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