Ogni donna è vittima di un uomo. L'emancipazione social ai tempi di Weinstein
Da #quellavoltache a #allucinazionecollettiva la via è breve
Dopo le denunce a Harvey Weinstein, a Hollywood tutti hanno un aneddoto: anche quando non è successo niente. Quella volta che Kate Winslet ha intenzionalmente omesso di ringraziare Weinstein che le ha fatto vincere un Oscar, quella volta che Felicity Huffman e Sienna Miller sono state costrette a indossare gli orrendi vestiti Marchesa, della (a breve ex) di lui moglie. Persino le Pussycat Dolls erano vittima di un giro di prostituzione. Certo il nome non le aiutava.
Reazioni divise tra Tutti-sapevano-e-nessuno-diceva e è-successo-a-tutti. Per spiegare l’omertà dei primi c’è la risposta – inusualmente seria – che diede nel 2005 Courtney Love a una cronista che le chiedeva un consiglio per aspiranti attrici di Hollywood. Inizialmente indecisa (“Mi denunceranno per diffamazione se lo dico”) alla fine sibilò: “Se Harvey Weinstein vi invita a una festa privata al Four Seasons, non andateci”. Col senno di poi era un buon consiglio.
Oggi però gli inside jokes e le mezze accuse non sono sufficienti, bisogna schierarsi. Se non parli sei colpevole o complice. Se sollevi dubbi e sei donna, guai a te che “non stai dalla parte delle donne”, se sei un uomo guai a te perché vuoi mantenere il tuo privilegio da maschio bianco (colpevolizzare un’etnia e un intero genere sessuale a buon fine=combattere le discriminazioni). Invece il è-successo-a-tutti fa scrivere a Gianluigi Ricuperati su Vanity Fair che è entrato in uno scannatoio gay per errore e ha capito cosa provano le donne ogni giorno. Per la prima volta s’è sentito desiderato, trauma. Sipario.
A febbraio esce Brave, un “empoweing manifesto” di una delle voci più provocatorie della nostra generazione. No, non Camille Paglia: Rose McGowan, divenuta famosa per interpretare una strega in un vecchio telefilm. Si definisce ora “femminista whistleblowing” perché da giovane ha accettato centomila dollari per non sporgere denuncia nei riguardi di Harvey Weinstein, e ora twitta il proprio coraggioso disprezzo con l’hashtag #metoo. In Italia diventa #quellavoltache “un progetto narrativo estemporaneo […] per raccontare le volte in cui siamo state molestate”, su iniziativa di Giulia Blasi. E così si legge di quella volte che, citiamo alla rinfusa: “Il tizio che in Tunisia mi fa l’occhiolino e segno di seguirlo”. “Il signore dell’età di mio padre che mi fissa in metro e mi dice ciao”. “Sorpresi uno dei vertici di un grosso gestore di telefonia a fotografarmi la scollatura con lo smartphone…”. ”Il capo mi afferrò il viso e mi stampò uno schifoso bacio sulle labbra. Non lo dissi a nessuno. Ne scrivo oggi, dopo 20 anni”.
Il concetto di emancipazione femminile che sta passando è che ogni donna è vittima di un uomo: piangiamoci addosso. Essere toccati quando non vuoi è fastidioso, ma se pensi ancora a quando uno t’ha dato una gomitata sul seno in autobus a 13 anni, il problema forse non è più solo suo: ma anche tuo. Dare la colpa a un intero genere sessuale creando un “flusso di coscienza collettiva di #quellavoltache è davvero straziante, commovente, doloroso, verissimo”, per citare un altro messaggio. Ma anche un po’ ridicolo.
A Woody Allen per aver osato dire che la storia di Harvey Weinstein è triste per entrambe le parti coinvolte, perché se è vero che tutte quelle donne hanno subito abusi è vero anche che Harvey era vittima dei propri impulsi, hanno detto che deve tacere. Proprio lui che ha sposato la figlia adottiva, proprio lui che ha denunce di stupro da parte della figlia Dylan Farrow e della ex moglie Mia Farrow (dopo ricerche meticolose gli investigatori conclusero che le dichiarazioni di Dyan fossero dovute a tensioni famigliari e all’influenza della signora Farrow, ma vabbè). Come si permette di parlare di clima di paranoia in cui “ogni ragazzo in un ufficio che fa l’occhiolino a una donna si ritroverà a doversi cercare un avvocato”. Proprio lui che ha ammesso d’essere uno stupratore pedofilo: lo abbiamo letto in un tweet.
Per una distopia verosimile non dovete leggere Margaret Atwood ma Esquire, maschile storico, dove trovate le 51 cose da non fare mai a una donna sul luogo di lavoro: non toccare una collega, mai. Non fare riferimenti alla sua vita sessuale, mai. Non commentare l’umore femminile. Se importiamo il modello americano, per evitare stupri e molestie dovremo far firmare consensi informati. Ogni flirt diventerà molestia. Tutto per accontentare chi fraintende il sesso e le relazioni. No, non è empowering identificare le donne nella vittima e infantilizzarle, non è empowering denunciare con gli hashtag anziché alla polizia, non è empowering vedere molestie in ogni flirt o situazione in cui siamo a disagio: è #allucinazionecollettiva.
Abituati alla tragedia