Il partito luogocomunista
Da “sei una risorsa” a “scomodo”, breve guida al vocabolario vuoto usato da politici e giornalisti
C’è tutto un lessico, tutto un vocabolario, tutto un parlare vuoto tra politica e giornali che ci accompagnerà nei prossimi mesi di campagna elettorale, durante i quali niente ci verrà risparmiato, specie ora che gli spin doctor di casa nostra hanno scoperto Instagram e ci inondano di gatti e cani e conigli e vacanze e colazioni. C’è tutto un canone, il canone del luogocomunismo, un frasario di espressioni stra-abusate di cui si potrebbe fare a meno; sono quelle espressioni che colonizzano le interviste, le dichiarazioni a tweet unificati, si sa già che arriveranno, basta solo aspettare. Ogni epoca ha avuto la sua storia, non sempre la sua epica. C’era un tempo in cui si diceva “senza se e senza ma”, ed era la frase fatta della sinistra per parlare di interventi bellici. Nei comizi, nelle riunioni di sezione, persino al bar, se a un certo punto qualcuno diceva “senza se e senza ma” diventava chiaro subito da che parte stesse. Senza se e senza ma. Quello che segue è un dizionario (ragionato no, perché altrimenti dovremmo fare una voce su tutti quelli che pretendono di fare cose ragionate) di frasi luogocomuniste.
Risorsa, sei una
Sono quelle espressioni che colonizzano le interviste, le dichiarazioni a tweet unificati, si sa già che arriveranno, basta aspettare
L’Italia è piena di risorse, soprattutto in politica. Così almeno pare ascoltando D’Alema, Renzi e tutti gli altri, mentre si prendono a cenciate. Ecco, se capitasse anche a voi, sul lavoro, iniziate a preoccuparvi. Se qualcuno vi dice “sei una risorsa” in realtà vi vuole congedare. Se poi a dirlo è la fidanzata o il fidanzato, ancora peggio. “Sei una risorsa” è il corrispettivo politico del paraculismo estetico-sentimentale: quando tu dici di una ragazza o un ragazzo che è “simpatico” al posto di “be’, in effetti è proprio un cesso”. La letteratura è ampia. Pier Luigi Bersani, 11 maggio 2010: “Vendola è una risorsa”. Pier Luigi Bersani, 2 luglio 2012: “Monti è una risorsa”. Graziano Delrio, 2 settembre 2012: “Renzi è una risorsa”. Roberto Speranza, 2 settembre 2013: “Renzi è una risorsa” Pier Luigi Bersani, 3 dicembre 2012: “Renzi è una risorsa”. Rosy Bindi, 20 febbraio 2013: “Renzi è una risorsa”. Marina Sereni, 5 marzo 2013: “Renzi è una risorsa”. Beppe Fioroni, 15 aprile 2013: “Renzi è una risorsa”. Corrado Passera, 17 aprile 2013: “Renzi è una risorsa”. Nichi Vendola, 13 giugno 2013: “Renzi è una risorsa”. Stefano Fassina, 4 luglio 2013: “Renzi è una risorsa”. Goffredo Bettini, 4 luglio 2013: “Renzi è una risorsa”. Dario Franceschini, 5 luglio 2013: “Renzi è una risorsa”. Enrico Letta, 9 luglio 2013: “Renzi è una risorsa”. Piero Fassino, 9 luglio 2013: “Renzi è una risorsa”. Massimo D’Alema, 20 luglio 2013: “Renzi è una risorsa”. Guglielmo Epifani, 20 luglio 2013: “Renzi è una risorsa”. Alessandra Moretti, 10 luglio 2013: “Renzi è una risorsa”. Mariastella Gelmini, 6 febbraio 2015: “Salvini è una risorsa”. Paolo Gentiloni, 29 dicembre 2016: “Boschi è una risorsa”. Roberto Speranza, 31 maggio 2017: “Pisapia è una risorsa”. Susanna Camusso, 17 luglio 2017: “Pisapia è una risorsa”. Vasco Errani, 5 ottobre 2017: “D’Alema è una risorsa”.
Fake news
Donald Trump chiama fake news tutto ciò che giornali e tv scrivono e dicono (di vero) di lui. Anzi, in un’intervista nel nuovo show televisivo di Mike Huckabee, per due volte candidato alle primarie presidenziali dei Repubblicani, sostiene proprio di averla inventata lui l’espressione “fake news”. Naturalmente non è vero. Di vero c’è che lui la usa in continuazione e l’ha resa (ossessivamente) popolare, il che spiegherebbe perché il dizionario Collins l’abbia appena nominata parola dell’anno. Trump chiama “fake news” non qualcosa che è falso, distorto, creato ad arte per orientare la pubblica opinione dell’internet, ma solo ciò con cui lui non è d’accordo. Sicché le critiche sono “fake news”, la Cnn è “fake news”. Ha anche chiesto che il Senate intelligence Committee apra un’indagine sui “Fake News Networks” e sul perché tante notizie siano “inventate”. Naturalmente, nessuna prova viene mai portata da Trump e dagli altri seguaci del fakismo. Come ha notato il giornalista americano Chris Cillizza, “fake” per Trump è da tradursi correttamente “come ‘non adulatore’”. Alla fine però il vero produttore di falsità è proprio il presidente Trump. Il Washington Post ha contato le sue balle: al nove ottobre, sono 1.318 in 263 giorni.
Hater
"Salotto buono" è per affezionati del gergo fra iniziati a sinistra. E' come "senza se e senza ma", però meno pop
Internet ha reso più facile non soltanto comprare un paio di scarpe, ma anche insultare. Ora, c’è modo e modo di insultare; ci sono un sacco di account falsi, su Twitter e Facebook, usati dagli staff dei candidati e dei leader per cercare di orientare pubblicamente la discussione. Poi ci sono quelli che ci credono davvero, una massa indistinta di vomitatori d’odio. Dicono cose bruttissime, altro che quelli che frequentavano i cortei da giovani e s’imbruttivano invecchiando, senza avere la possibilità di essere degli splendidi quarantenni come Nanni Moretti. Sui giornali vengono chiamati “hater”. Ci sono gli “hater” di Laura Boldrini, per esempio. “Hater” è pure quell’aspirante assessore del M5s in Sicilia che ha detto di voler dar fuoco a Ettore Rosato. Il problema è che in questa sbornia di politicamente corretto chiamiamo “hater” quelli che un tempo avremmo più propriamente definito “stronzi”.
Scomodo
Poi ci sono quelli che usano ossessivamente la parola “scomodo” riferendosi all’intellettuale, al politico, allo scrittore, al giornalista (insomma a se stessi). Spunta sempre fuori un personaggio scomodo, tipo Fabri Fibra, presunto scandalizzatore rap, anche lui naturalmente scomodo, e come non ricordarsi di Fabrizio Corona che disse “sono un personaggio scomodo e vogliono vedermi in galera”? Naturalmente chi si autodefinisce così poi ha molto di conformista – o al limite raggiunge il conformismo dell’anticonformismo, la forma evoluta e al contempo deteriore – e un vero irregolare, altro che scomodo, non userebbe mai quella parola. Eserciterebbe il suo dissenso in quota minoranza. “Sei triste, papà?”, chiese una volta Chaterine Camus, la figlia di Albert, che rispose: “No, sono solo”. Perché l’irregolare non è mai scomodo. Altrimenti significa che è diventato una banalissima icona pop.
Paese reale (cfr. società civile)
Nella sbornia di politicamente corretto chiamiamo "hater" quelli che un tempo avremmo più propriamente definito "stronzi"
L’archivio dell’Ansa riporta 1.726 occorrenze. L’espressione negli ultimi decenni è finita negli interventi di tutti, una piccola ricerca storica fa attraversare epoche lontane, congressi del Partito Repubblicano con relazione di Spadolini, duelli sinistri fra Bertinotti e Prodi, arringhe di Di Pietro, altolà casinisti (nel senso di Casini: “La politica non è in sintonia con il paese reale”, 6 febbraio 2005). Un tempo, perlomeno, veniva fatta la distinzione ottocentesca fra “paese reale” e “paese legale”, da una parte il popolo o presunto tale dall’altra la burocrazia, il governo, le istituzioni. “Il paese reale parla di cose di cui la politica non parla quasi mai” (Renzi, 27 ottobre 2017). “Renzi è abituato ad altre musiche ma penso che se comincia a girare nel paese reale si può rendere conto del fatto che i problemi ci sono e che il Jobs Act non è servito assolutamente a nulla” (Maurizio Landini, 17 ottobre 2017). Ormai è rimasto solo il “paese reale”, che naturalmente è un inno al relativismo, perché ognuno ha in testa il paese reale che gli pare. E di solito chi pensa al “paese reale” non ne fa parte. E’ una costruzione politica-sociologica a uso di campagna elettorale. Quando leggete “le istanze del paese reale” (Ciriaco De Mita, 4 aprile 2013), soffermatevi sulle “istanze”. Chi dice “istanze” nel paese reale non c’è mai stato, neanche sa dov’è. E’ come l’Isola che non c’è.
Società civile
La società civile è il paese reale impegnato, quello che non sta nei bar a cazzeggiare o sul treno per andare a lavoro la alle 7 di mattina. E’ il paese reale riflessivo, un tempo si sarebbe detto ceto medio, paulginsborgianamente. La società civile, almeno a un certo livello, legge Kant e va a letto presto la sera. La società civile s’indigna e s’impegna in politica, ma contro i puzzoni del Palazzo. Così almeno si racconta, si descrive. Negli anni Novanta faceva da supplenza alla politica, vent’anni dopo è sempre lì, sotto altre forme. Solo che spesso è più incivile della comunità politica. Citofonare Franco Fiorito, detto er Batman, quello dei fondi del Pdl in Regione Lazio usati per spese personali, che nel 1993 partecipò insieme ad altri giovani missini al lancio di monetine contro Craxi davanti l’Hotel Raphaël con la maglietta “Arrendetevi, siete circondati!”.
Spunta il nome di
Ormai è rimasto solo il "paese reale", che naturalmente è un inno al relativismo, perché ognuno ha in testa il paese reale che gli pare
Nelle carte di un’inchiesta ci sono sempre un sacco di nomi. Intercettati, pedinati, raccontati, indagati. Non tutti sono colpevoli, naturalmente; qualcuno passava di lì per caso. Il linguaggio delle procure e dei tribunali è diventato, grazie ai media, un sottogenere letterario, quasi a parte in certi casi, quando i giornali si limitano a fare da buca delle lettere. “Spunta il nome di” è l’espressione migliore per dare l’aria di sapere le cose senza effettivamente saperle; l’importante è far vedere, non ai lettori ma agli altri giornali, che non si è preso un buco, vero o presunto che sia. Prendiamo un caso recente: “Molestie in Gran Bretagna: spunta il nome di Green, braccio destro della May” (Ansa). “Scandalo ‘Alta libidine’ a Londra, spunta il nome di Green, numero due del governo May” (Corriere della Sera). Ma che fine abbiano fatto tutti quei nomi spuntati nel corso degli anni -– su Mafia Capitale era tutto uno spuntare – è materia da archeologi del pensiero.
Salotto buono
L’espressione è per affezionati del gergo fra iniziati a sinistra. E’ come “senza se e senza ma”, però meno pop. Si riaffaccia ciclicamente, e di recente si deve a Matteo Orfini l’uso del termine a proposito di Bankitalia. “Comunque cari compagni, o fate la sinistra o fate i portavoce a prescindere del salotto buono. Che le due cose insieme funzionano poco” (19 ottobre 2017). “Il patrimonio produttivo del paese non è costituito dagli Agnelli e dalle altre note famiglie del salotto buono ma dalle miriadi di ignoti artigiani e piccoli imprenditori” (Roberto Calderoli, 22 settembre 2002). “Non mi meraviglia affatto il ripudio del comunismo da parte di D’Alema: è il prezzo da pagare per chi da tempo è su posizioni moderate e si accinge con la ‘Cosa 2’ ad accorparsi con moderati ancora più moderati. Provo solo tristezza nel vedere che è disposto a tanto per entrare nel salotto buono dei moderati” (Armando Cossutta, allora presidente del Prc, 19 gennaio 1998).
Le destre
La destra non è mai una sola, la destra è plurale. “Siamo sicuri che battiamo le destre facendo qualcosa di simile a quello che fanno loro?” (Andrea Orlando, 23 febbraio 2017). “Il lavoro cala, i conti pubblici affondano e la crescita è al palo: questo è il bilancio fallimentare di tre anni di governo Berlusconi. Altro che rivoluzione liberale, in Italia con le destre al potere si è assistito al trionfo della rendita a scapito della capacità di impresa” (Maurizio Migliavacca, all’epoca coordinatore della segreteria del Pd, 10 ottobre 2010). Oggi “le destre” sono ancora più articolate. C’è Berlusconi, c’è Salvini, c’è il M5s. Le destre sono tutte intorno a noi. Anche quando non lo sono. E’ il solito tic della sinistra che distribuisce etichette quando c’è qualcuno o qualcosa che non le piace.
Populismo
L’accusa di populismo non si nega a nessuno e molti la usano a casaccio. Si confondono gli estremisti con i populisti, anzi inevitabilmente un estremista è per forza populista. Il populismo invece andrebbe analizzato in termini avalutativi, come direbbe Max Weber. E, avalutativamente scrive Marco Tarchi nel suo “L’Italia populista”: “L’essenza del populismo è identificabile in una specifica forma mentis, dipendente da una visione dell’ordine sociale alla cui base sta la credenza nelle virtù innate del popolo, il cui primato quale fonte di legittimazione dell’azione politica e di governo è ampiamente rivendicato. Questa mentalità può assumere una molteplicità di espressioni e può essere alla base di uno schema ideologico di interpretazione della dinamica sociale, dello stile di comportamento politico di soggetti individuali o collettivi (…), di una formula di legittimazione che può fare da base a un regime, e, per il suo carattere fluido, non si manifesta in forma monolitica ma presenta gradi di intensità diversi a seconda dei contesti e delle circostanze”. I Cinque stelle, va da sé, sono populisti, Renzi è un pop-populista.