LaPresse/Federico Bernini

Contro l'Italia del voyeurismo punitivo

Salvatore Merlo

Brizzi, i boia. E poi il film sul Cav. Lo sceneggiatore di Sorrentino ci spiega cos’è il moralismo di piazza

Roma. Ha scritto la sceneggiatura della “Grande bellezza”, e anche quella di “Loro”, il film che Paolo Sorrentino sta girando su Silvio Berlusconi. Così, mentre con occhi nuvolosi dice che trova spaventoso “quando l’opinione pubblica è chiamata a interpretare e giudicare secondo canoni morali quello che succede tra due persone nel chiuso di una stanza”, mentre pronuncia queste parole, riferite al caso del regista Fausto Brizzi e alle accuse di molestie sessuali, è inevitabile pensare che un po’, Umberto Contarello, padovano, sessant’anni a luglio, una vita nel cinema, stia anche parlando del suo Berlusconi, quello del film, l’eroe eponimo d’una vicenda al di sopra del rigo che, con la famosa storia delle “cene eleganti”, ha investito la politica ma anche la sociologia, il mondo dell’informazione, interrogato l’Italia intera su termini come moralismo, morbosità, privacy, limiti, sfrenatezza, scambio sessuale, concussione, seduzione e potere.

     

“La gente, persino per strada, su internet, sui social network, si esprime utilizzando comunemente una terminologia giudiziaria”, dice Contarello. “Ma traslata. Fateci caso: ‘Accusa’, ‘difesa’, ‘testimone’… Questo vuol dire che viviamo in un posto in cui esiste il diritto diffuso di accusare gli altri. E la mostruosità è che siamo arrivati al tribunale del popolo, con l’opinione pubblica che giudica con spensierata violenza i comportamenti privati, ed emette sentenze, con la stessa foga di una molestia sessuale, perché ha visto Italia Uno. Tutto questo mi fa orrore. Il rapporto tra i sessi è ambiguo, ed è dunque difficile stabilire in modo certo una verità. Intendiamoci, io considero squallidi, spazzatura, i comportamenti maschili di cui stiamo parlando. Ma questo non inficia il ragionamento che sto facendo. Parlo di metodo, di clima. La gogna è uno spazio fisico che ha al centro una figura: la punizione. Ma qui siamo di fronte a qualcosa di peggio. Siamo di fronte a una figura fantasmatica, la cosiddetta opinione pubblica, chiamata a giudicare e punire in assenza di reati. E’ l’orrore puro. Ed è anche un orrore del sistema informativo, che fa spettacolo, alimenta un sentimento di caccia alle streghe, non coltiva la complessità, non fa distinzioni, è insieme voyeur e boia”.

   

Tra qualche settimana uscirà l’ultimo film diretto da Brizzi, ma i produttori hanno cancellato dai titoli di testa il nome del regista. “E’ una cosa ridicola, stupida. E inoltre è anche una porcheria. L’idea che chi costruisce qualcosa debba essere bello pure lui, nella vita privata, è semplicemente idiota. Proseguendo su questa strada dovremmo mettere all’indice gran parte della nostra produzione culturale, forse a cominciare da Michelangelo. Con questo criterio dovremmo sbianchettare tutta la produzione cinematografica di un genio come Vittorio De Sica, perché giocava a carte e andava con le donne. E Fellini che tradiva la moglie? E Visconti? E Pasolini che andava con i giovanetti di strada? A quei tempi quello che questi grandissimi autori facevano nelle loro case non importava a nessuno. L’Italia non era ancora il paese plebeista e rincoglionito di oggi. Adesso spiamo. C’è una curiosità morbosa che non ha niente a che vedere con il culto americano, persino ossessivo della verità. E infatti c’è una profonda differenza tra la storia di Brizzi e quella di Kevin Spacey, c’è una profonda differenza tra le vicende italiane e quelle americane”. E quale? “Che loro nascono dal puritanesimo e noi da Machiavelli e dalla chiesa cattolica. Loro hanno il feticismo della verità, noi adoriamo gli ossimori e abbiamo un rapporto diverso con il peccato. Noi godiamo della delazione, loro vogliono disvelare”.

   

“Bill Clinton non chiese scusa perché aveva tradito sua moglie, ma chiese scusa per la bugia che aveva detto. Da noi è esattamente il contrario”, dice Umberto Contarello. “La verità, da noi, è sempre perlomeno doppia. E in realtà non frega a nessuno. In America questa storia delle molestie sessuali nasce dall’ossessione anglosassone per il disvelamento. Viene lanciata dal New York Times e dal New Yorker, che sono percepiti come gli organi autorevoli di un sistema informativo autorevole e libero. Mica le ‘Iene’ di Italia Uno, con i balletti, le pernacchie e le barzellette. E’ tutta una storia che concerne la limpidezza del potere in generale in America. E’ una storia che, inoltre, ha un rapporto diretto con la natura ‘industriale’ del cinema americano. Che muove miliardi. E dove c’è industria c’è anche forma e ci sono regole. Loro, da puritani, giudicano i prodotti industriali, ovvero decidono anche di non comprarli, in base alla carta d’identità di chi li ha prodotti. Si capisce dunque quale sia l’enorme interesse economico dietro la scelta di rigirare le scene che vedevano protagonista Kevin Spacey nel film di Ridley Scott. Da noi invece tutto questo è declinato secondo un canone morboso, plebeo e anche un po’ cretino. Per prima cosa a noi non interessa la verità in sé, intesa come controllo sull’integrità delle figure pubbliche. Altrimenti non saremmo italiani, non avremmo avuto la biografia nazionale e politica che abbiamo. A noi interessa vedere, spiare pornograficamente cosa fanno e cosa posseggono gli altri. E infatti siamo pazzamente innamorati della delazione privata. Di fronte a una signorina ripresa di spalle che racconta l’atto sessuale di una figura nota, siamo irretiti. In secondo luogo da noi non c’è un’industria cinematografica come quella americana. Il nostro è più un artigianato, una piccola industria. Produciamo prototipi. E questo, ovviamente, prototipizza anche tutti i ruoli, le dinamiche e le procedure. Con aspetti positivi, e negativi. Non abbiamo quei codici, quelle regole, e non abbiamo nemmeno quei numeri finanziari. Dunque, tra le altre cose, cancellare il nome di Brizzi dal film è una decisione scissa da qualsiasi principio di realtà economica. Nessuno in Italia non va al cinema se il film è di Brizzi perché Brizzi è un presunto molestatore. E quindi non c’è nessuno che perde miliardi se non cancella quel nome. E non solo perché miliardi non ne girano. Capite bene che il quadro è quello di un paese un po’ sballato”.

  

E ancora una volta, ascoltandolo, ci sembra che tutto si sovrapponga nelle parole di Contarello: Kevin Spacey e Brizzi, Berlusconi e Clinton, tutta una materia da film, da sceneggiatura, da commedia italiana, nel senso più proprio, classico ed elevato del termine. “E’ una storia che dice molto del nostro paese”, come il film su Berlusconi, probabilmente. “Certo il filtro a questo groviglio un po’ insensato dovrebbe essere il dovere di cronaca”, aggiunge lo sceneggiatore, “il filtro dovrebbe essere il buon senso dei professionisti della comunicazione. Che invece fanno spettacolo, presentandoti una donna, di spalle, con la voce modificata, secondo il canone visivo del testimone di giustizia, che parla di un uomo che immediatamente, secondo il medesimo canone, diventa ‘l’accusato’, il ‘colpevole’. E allora il dovere di cronaca non esiste più, la giustizia è ricompresa nel giudizio morale, e questo giudizio morale è amministrato dalla gente. Altro esempio? Una ex Miss Italia riconduce la sua mancata carriera cinematografica a un suo antico rifiuto di spogliarsi di fronte al regista Brizzi. Sicuri che questa sia una notizia? Quante persone nella vita non riescono a fare quello che vorrebbero, per milioni di motivi, tra cui l’inadeguatezza? Dire ‘non ho più fatto l’attrice perché quel giorno non mi sono spogliata’ significa associare con sicurezza il fallimento della propria carriera a quell’evento. Ma il collegamento tra le due cose c’è davvero? Ma siete sicuri?”.

   

Se ci fosse un collegamento sarebbe però grave, e queste accuse vanno prese sul serio. “Ma sì, certo. Non difendo i comportamenti. Parlo del metodo, di questa spettacolarizzazione cialtronesca, parlo della giustizia del popolo e dell’informazione-spettacolo, di questo intreccio pazzesco tra la violenza del processo di piazza e la superficialità con la quale le accuse prendono forma nel nostro ‘pop-giornalismo’”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.