Dylan Farrow e Woody Allen

Il caso Dylan Farrow e quelle donne vittime di violenza a cui non resta che la vendetta

Simonetta Sciandivasci

La figlia di Woody Allen scrive che Hollywood ha protetto Weinstein e anche suo padre. E ci esorta a credere che ogni insinuazione sia una verità

A proteggere gli orchi non c'è solo un consolidato sistema di potere patriarcale: ci sono pure il nostro scetticismo, il dubbio, la presunzione d'innocenza, il rassegnato fatalismo del “chi può dirlo?”. Lo sostiene Dylan Farrow in conclusione del suo Op-Ed (commento, opinione, fate voi) pubblicato giovedì dal Los Angeles Times, nel quale ha ricordato e denunciato che Woody Allen è ancora in circolazione, lavora, guadagna, scrive, produce, insomma non ha fatto la fine di Harvey Weinstein. "La rivoluzione è stata selettiva", si legge in apertura del pezzo, che per metà elenca le molestie che l'autrice sostiene di aver subìto dal regista e per l'altra i nomi delle attrici che hanno sostenuto pubblicamente il #MeToo o hanno espresso sdegno verso Weinstein, ma che su Woody Allen hanno ribadito di non avere elementi per fare altrettanto (in testa Kate Winslet, protagonista del suo ultimo film). Non fa una piega: person of the year sono "le donne che hanno spinto tutti a smettere di accettare l'inaccettabile" (Edward Felsenthal, direttore del Time), ma la parola del 2017 è complicità.

Chi non mette un microfono, una prima pagina, un Op-Ed, una telecamera a libera disposizione di una donna che denuncia di essere stata violentata è complice del suo violentatore, a quanto pare, e dev'essere stato per questo che il Los Angeles Times ha consentito a Dylan Farrow di ritornare sulle accuse che, per anni, ha indirizzato a suo padre. L'ultima volta, nel 2014, fu Nicholas Kristof del New York Times a ospitare sul suo blog una lunga lettera nella quale raccontava come suo padre avesse cominciato a stuprarla quando aveva solo sette anni, proseguendo indisturbato, a lungo. Allen aveva risposto riportando, tra le altre cose, il referto della clinica per abusi sessuali sui minori a cui si era rivolta la polizia del Connecticut, #quellavoltache Mia Farrow lo aveva trascinato in tribunale con l'accusa di aver fatto del male a Dylan: "Riteniamo verosimile una combinazione di queste due ipotesi: che Dylan sia stata indottrinata o influenzata da sua madre, la signora Farrow, e che le dichiarazioni di Dylan non siano vere ma siano state fatte da una bambina emotivamente vulnerabile che era stata segnata da una famiglia disturbata e che stava reagendo alle tensioni in famiglia". Sul Los Angeles Times, Dylan ha ricordato che in molti hanno testimoniato l'inappropriata affettuosità di Woody Allen nei suoi confronti. Ricorderete tutti quella scena di Mrs Doubtfire, quando Robin Williams, con le lacrime agli occhi, racconta che gli assistenti sociali, da quando lui e sua moglie hanno divorziato, lo osservano giocare con i suoi figli e "se io li abbraccio si chiedono perché".

 

Elliot Wilk, giudice della causa di custodia dei figli di Allen e Farrow (oltre a Dylan, ci sono Ronan, il giornalista che ha firmato l'inchiesta su Weinstein e Moses, che ha sempre testimoniato in favore di suo padre), ai tempi del processo (erano gli anni Novanta) disse che "probabilmente non sapremo mai quello che è successo". Nel 2014, rispondendo all'ennesimo attacco pubblico di sua figlia, Woody Allen scrisse che quello fu un gesto imperdonabilmente irresponsabile e aggiunse: "Lo sappiamo eccome, perché è stato stabilito, e non c'era alcun dubbio sul fatto che non ci fosse stato alcun abuso sessuale". Ma era il 2014, la riesumazione del caso non ebbe l'esito sperato da Dylan. Oggi, però, fa un effetto diverso leggere Dylan Farrow accusare suo padre di averla violentata e di aver coperto, per anni, le sue malefatte, grazie a uno strepitoso team di avvocati, ma soprattutto grazie a un mondo compiacente perché circuìto dall'arte e dal potere di Woody. Ci chiama in causa e bussa alla porta del nostro senso di giustizia, sempre più disarcionato da quella codificata, alla quale abbiamo cominciato a guardare come a un meccanismo di collusione.

 

A consentircelo c'è (anche, forse soprattutto) un dato di fatto: il sistema giudiziario, per anni, in tutto il mondo, non ha saputo proteggere le donne vittime di violenze sessuali: questo ha contribuito ad alimentare la convinzione che la sola arma efficace nelle mani di quelle donne fosse la vendetta. "Quando la giustizia fallisce, si apre la porta alla vendetta", ha scritto Jessa Crispin sul Guardian, ricordando che non esiste una regolamentazione precisa, seria, sensata per i casi di abuso, molestia e stupro e che, spesso, al loro indirizzo, vengono spediti ammanettati degli innocenti. "Noi donne dovremmo essere preoccupate dalle ingiustizie che vengono commesse in nome della nostra sicurezza. Non dovremmo compiacerci se uomini non colpevoli vengono accusati. Non possiamo sostituire un sistema ingiusto con uno ancora più ingiusto". Dylan Farrow che invece ci obbliga a leggere una complicità nel dubbio fa esattamente questo: ci esorta a credere che ogni insinuazione sia una verità. E che pervenire a un sistema che impedisca per sempre a un uomo di esercitare il proprio potere su una donna passi da uno stadio intermedio inevitabile: la dittatura della vendetta.

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