Ecco dove sono nate e dove si incattiviscono le campagne contro il maschio predatore

La casa degli inquisitori. I comitati etici delle università americane si arrogano il diritto di condannare e licenziare senza un giusto processo

La campagna contro il maschio predatore è cominciata all’improvviso, come un fiume che spacca un argine e inonda ogni cosa, ma nella realtà era già tutto scritto da tempo. I passi erano stabiliti, le norme approntate, le convenzioni sociali erano mature per sferrare un’offensiva scrupolosamente pianificata e testata. Era già previsto e brevettato anche quel peculiare dispositivo culturale e normativo che permette di condannare de facto gli accusati in assenza di un giusto processo, senza che la procedura appaia in conflitto con le garanzie di uno stato di diritto. Nella convenzione odierna è infatti moralmente obbligatorio ignorare gli strumenti di difesa che la legge mette a disposizione di tutti i cittadini quando si tratta di questioni sessuali. Consideriamo la parabola. Le prime denunce di questa ondata sono arrivate, attraverso i giornali, con le testimonianze pubbliche di molte vittime che presentavano circostanze specifiche e dettagliate, corroborando un quadro di abusi e comportamenti lesivi della dignità femminile talvolta arcinoti in ambienti professionali a un tempo pettegoli e omertosi. Quasi sempre arrivava anche una ammissione di colpa dell’orco, almeno parziale. Con il passare delle settimane e dei mesi la soglia per il licenziamento e la pubblica condanna del molestatore si è drasticamente abbassata.

 

Il senatore democratico Al Franken, una volta colpito dalle accuse di un’attrice, ha detto tranquillamente che era pronto a collaborare con la commissione etica del Congresso e tutte le autorità competenti per fare luce sul merito delle accuse, e si era detto “fiducioso sull’esito delle indagini”. Diversi suoi colleghi hanno dapprima approvato l’idea di un processo equanime e trasparente, ma dopo qualche giorno di pressioni dentro e fuori dal partito, trentuno senatori democratici hanno firmato una richiesta di dimissioni immediate. Franken ha lasciato il Senato con un discorso amaro che riflette la sua indignata e inutile contrarietà al processo sommario a cui è stato sottoposto.

 

Leonard Lopate, storico giornalista radiofonico di Wnyc, è stato avvertito del licenziamento poco prima di andare in onda. Gli hanno detto che “molte” donne lo accusavano di comportamenti impropri e hanno dato notizia al pubblico del provvedimento prima ancora di comunicare all’interessato chi lo accusava di cosa. Lui ha detto: “Sono sicuro che una indagine onesta rivelerà la mia innocenza”, senza nemmeno accorgersi che il processo pubblico era già stato celebrato. Nel più sibillino fra i casi finora emersi, il settimanale famoso per le sue ossessive procedure di fact checking, il New Yorker, ha licenziato una delle sue firme di punta, Ryan Lizza, perché si è macchiato “di quella che crediamo sia una condotta sessuale impropria”. Per rispettare una non meglio specificata “richiesta di privacy” il New Yorker, bastione dell’informazione trasparente, non ha rivelato l’identità e il numero delle donne (ma saranno poi donne?) che ha denunciato Lizza e soprattuto non dice per quali colpe è imputato. Che cosa significa precisamente “condotta sessuale impropria” in questo caso? Che cos’ha fatto Lizza? L’interessato, da parte sua, si è prodotto nella più limpida reazione espressa finora da un accusato: la decisione, ha detto, “è stata presa frettolosamente e senza un’indagine approfondita dei fatti rilevanti”. A suo dire, è un “terribile errore”. Con il passare dei giorni diminuisce l’esigenza di prove per emettere una sentenza.

 

Non bisogna cadere nell’inganno di considerare quello che sta accadendo in questi mesi come una repentina presa di coscienza, una fiammata insurrezionale contro l’ancien régime degli orchi. E’ un piano collaudato che è entrato in azione su larga scala, e non c’entrano i complotti. Il banco di prova della rivoluzione che ha travolto Hollywood, il mondo dei media e dell’intrattenimento, che ora aggredisce la politica e si muove in fretta verso l’obiettivo finale, ovvero la punizione generalizzata di uomini comuni che occupano posti di lavoro comuni, è stata l’università. Era quello il contesto prescelto per sperimentare e mettere a punto. Si trattava, del resto, del campione scientifico ideale. Un ambiente diffuso su tutto il territorio nazionale, fatto di istituzioni formalmente indipendenti ma unite da procedure comuni, nel quale roteano forsennatamente gli ormoni e abbondano le interazioni sessuali, specialmente quelle occasionali, e dove apparati burocratici paralleli alla giustizia ordinaria hanno il potere di indagare e punire.

 

I comitati etici delle università non hanno il potere di condannare al carcere, ma essere espulsi dall’università con l’accusa di stupro è, a modo suo, una prigione, una lettera scarlatta. La politica ha deliberatamente scelto di usare i campus come laboratorio in cui testare nuovi standard legali e procedurali sul tema delle molestie, imponendo o caldamente suggerendo una serie di misure che favoriscono le vittime e riducono le possibilità di difendersi degli accusati. La ratio dietro alla riforma nella condotta universitaria era che la stragrande maggioranza delle dispute di natura sessuale negli atenei avvengono senza testimoni e spesso gli incontri intimi sono influenzati dalla massiccia presenza di alcol e droghe. Quasi tutte le denunce si muovono in una zona grigia dove stabilire la consensualità di un atto non è semplice e si finisce nel vicolo cieco del “lei dice che” contro il “lui dice che”.

 

Non è affatto esagerato dire che l’Amministrazione Obama ha concepito e messo in atto in modo puntuale, scientifico nelle università il piano d’azione che ora è diventato moneta corrente in tutto il paese. Ad ammetterlo è stata Lynn Rosenthal, consigliere della Casa Bianca sugli abusi contro le donne (posizione creata da Obama), dopo la fine del suo mandato: “Abbiamo capito che potevamo identificare, valutare, studiare il problema [degli incontri di natura sessuale fra gli studenti] e potevamo sviluppare soluzioni mirate. Eravamo anche convinti che quello che succede nei nostri college influenza quello che succede nel nostro paese. Se fossimo riusciti a correggere questo problema nei campus, avremmo potuto influenzare un’intera generazione”. L’esplosione del movimento Me Too dimostra che il progetto è riuscito oltre ogni aspettativa.

  

Alla detronizzazione di Weinstein si è arrivati dopo che migliaia di giovani Weinstein senza nomi riconoscibili sono stati espulsi dalle università sulla base della parola di ragazze molestate che hanno fatto ricorso presso autorità istruite dalla Casa Bianca ad adottare una specie di presunzione di colpevolezza. Per essere precisi, è stato Joe Biden a promuovere e mettere in atto la macchina dell’inquisizione universitaria che ha fatto da modello per l’attuale caccia al molestatore. La legge di cui va più fiero nella sua lunga carriera di legislatore è il Violence Against Women Act del 1994, e da quel momento la lotta alla violenza verso le donne è una delle sue battaglie di riferimento. Quando è diventato vicepresidente ha ottenuto da Obama una struttura apposita per contrastare il problema, e in quell’ufficio della Casa Bianca, di concerto con il dipartimento dell’Educazione, è stato concepito il documento che ha cambiato radicalmente il modo di affrontare la questione delle molestie. La circolare nota come “Dear Colleague” è stata diramata nel 2011 a tutte le 4.600 università americane e contiene istruzioni dettagliate per gli amministratori universitari su come affrontare le denunce di violenza sessuale. Il cuore della riforma riguarda il cambiamento del paradigma legale di riferimento: l’Amministrazione ha stabilito di sostituire, nella giustizia interna ai college, il principio per cui la colpevolezza va provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” con il criterio della “preponderanza delle prove”, utilizzato in alcune aree del diritto civile (in cui però viene bilanciato con altre garanzie di terzietà, ad esempio una giuria indipendente). Se le prove sono sbilanciate leggermente in favore dell’accusa, se cioè “è più probabile che il reato sia stato commesso”, allora l’imputato è colpevole, anche in presenza di molti ragionevoli dubbi sull’accaduto.

 

“Dear Colleague” contiene molte restrizioni congegnate appositamente per sanzionare le abitudini del maschio, tanto che anche le “avance non richieste” o le allusioni sessuali verbali sono classificate alla stregua di molestie. Rassicurati dall’attivismo del governo, i campus più progressisti hanno promulgato regolamenti interni ancora più rigidi e comminato punizioni ancora più severe. Tutti gli altri, intimoriti dall’assertività dell’amministrazione, hanno aderito in modo diligente. Si è imposto, fra le altre novità, il concetto del “consenso affermativo continuato” – opposto al vecchio “no means no” – che impone ai ragazzi di ricevere l’esplicito consenso del partner per ogni singola manovra caricata sessualmente, con costanti aggiornamenti lungo tutta la durata del rapporto. La trovata è stata talmente popolare che tre stati – California, New York e Connecticut – l’hanno adottata come legge. Contemporaneamente la Casa Bianca ha suggerito interpretazioni creative ed estese del Titolo IX, l’articolo del codice civile che vieta la discriminazione su base sessuale. Qualunque controversia di natura vagamente sessuale è stata ricondotta sotto la protezione dell’intoccabile Titolo IX, pilastro della giurisdizione egalitaria americana che nessun giurista avrebbe mai il coraggio di mettere in discussione. In quel contesto si è affermato l’assoluto, incontrovertibile obbligo di credere alla versione delle vittime, atto di fede condensato nella formula rituale “I believe you”.

 

L’enorme salto culturale messo nero su bianco da “Dear Colleague” e da una nuova idea del regolamento del rapporto fra i sessi in università ha prodotto una serie di conseguenze che la giornalista Emily Yoffe, autorità in materia di violenza sessuale nel campus, ha riassunto così: “Fra i principi che sono stati interiorizzati nelle università, e che ora si ripropongono nel mondo esterno, ci sono la convinzione che le accusatrici dicono sempre la verità; l’idea che l’urgenza di prendere provvedimenti è più importante del giusto processo; che non dobbiamo fare distinzioni fra atti criminali e maleducazione e che il comportamento predatorio dei maschi è ovunque”. Sotto questo regime, gli accusati sono stati sistematicamente puniti prima ancora di potersi difendere, è stato negato in moltissimi casi il diritto d’appello, la “preponderanza delle prove” è stata usata per dirimere sommariamente, in favore delle vittime, tutti quei casi in cui le vittime hanno avuto un ripensamento postumo intorno al consenso oppure i ricordi dei protagonisti sono confusi, magari annebbiati dalle sostanze.

 

Nei corsi informativi per le matricole della University of Southern California sul Titolo IX insegnano ad ammettere anche la colpa di cui non si ha il ricordo: “Ammetti a te stesso che anche se non ricordi l’accaduto, o non ti credi capace di fare del male a qualcuno, è possibile che tu abbia varcato un limite”, si legge nella dispensa distribuita agli studenti. Qualche mese fa quattro giuriste femministe di Harvard, Elizabeth Bartholet, Nancy Gertner, Janet Halley e Jeannie Suk Gersen, hanno scritto un articolo intitolato “Fairness for All Students” in cui denunciano nel dettaglio tutte le ingiustizie che la rivoluzione legale introdotta da Obama ha generato in università. Una di queste è l’impossibilità per gli imputati di difendersi. Come ha scritto Suk Gersen sul New Yorker, chi in un processo sulle molestie insiste perché siano esaminati nel dettaglio i fatti prima della conclusione dell’indagine interna viene percepito come “viziato nei confronti dell’accusato”. Chi dice “vediamo i fatti e poi giudichiamo” è un complice del mostro. Dopo la svolta del “Dear Colleague” circa duecento studenti espulsi dalle università hanno fatto ricorso presso la giustizia ordinaria, e nella maggior parte dei casi è stata agevolmente provata la loro innocenza in sede penale. Molti giudici, una volta esaminati i fatti, sono rimasti costernati dalla tendenziosa incuria con cui gli studenti erano stati frettolosamente puniti. Il processo che avevano subito nel campus aveva un solo esito possibile.

 

L’Amministrazione Trump ha revocato la politica del precedente governo, e la segretaria dell’Educazione, l’odiatissima Betsy DeVos, ha addirittura ricevuto apprezzamenti da certi ambienti della sinistra disposti ad ammettere che il sistema obamiano ha creato nuove ingiustizie. Le cronache quotidiane ci dicono che la controriforma è arrivata troppo tardi. Il sistema collaudato nei campus è penetrato nella coscienza collettiva ed è stato messo in pratica nell’intera società. Tre analogie fra l’esperienza di questi anni nelle università e il momento Me Too sono chiaramente distinguibili in questo frangente. Primo, l’annullamento di ogni distinzione di gravità fra i comportamenti. Nella notte dell’inappropriato tutte le vacche sono bigie. Lo ha detto anche la senatrice Kirsten Gillibrand, improvvisata protettrice delle donne molestate: “Non dobbiamo spiegare le gradazioni fra assalto, molestia e palpata non richiesta”.

 

Secondo, l’impossibilità di difendersi. Non ci sono fatti a cui i Ryan Lizza o i Leonard Lopate possano appellarsi per dimostrare la loro innocenza, ché il solo suggerire una spiegazione alternativa significa infangare le vittime mettendo in dubbio i loro racconti. Significa essere mostri impresentabili, fossili del patriarcato, amici di Weinstein. L’ultima analogia riguarda la creazione di un sistema di giustizia parallelo alle procure e ai tribunali. Le università avevano strumenti punitivi formidabili, innanzitutto l’espulsione, che macchia per sempre la reputazione di uno studente; allo stesso modo, i potenti che cadono uno via l’altro sotto le accuse hanno il processo mediatico, la vox populi li distrugge istantaneamente, molto prima che si arrivi in tribunale. Non c’è giudice che possa riabilitarli. Se per un attimo questo processo globale al mostro è sembrato una rivolta spontanea della coscienza femminile, occorre ricredersi: è l’esito di un progetto politico. E rischia di finire male come il modello in scala testato nelle università americane.

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