Care femministe, ecco perché Emily Ratajkowski è la donna dell'anno
L’ultimo a salire su un tavolo per svuotarsi addosso una coppa di spaghetti e mangiarli a grappoli, con le mani, è stato Totò. Per fortuna ci ha pensato anche la modella americana
Che memoria nazional-popolare ricordi, l’ultimo a salire su un tavolo per svuotarsi addosso una coppa di spaghetti e mangiarli a grappoli, con le mani, è stato Totò, in compagnia di compare e rispettive famiglie. Correva l’anno 1954 e il film era Miseria e Nobiltà. Non è escluso che Emily Ratajkowski l’abbia visto, ma è quasi certo che non volesse citarlo, nel suo contributo per il calendario dell’Avvento (avete capito bene) di Love, uno style-magazine biennale inglese, che debuttò, otto anni fa, con Beth Ditto in copertina, grassa, nuda, violacea: stupenda. La Ratajkowski ha girato un video nel quale solca una tavola imbandita e si rovescia addosso spaghetti e vino rosso e non si capisce mai chi sia il contorno di cosa, ma è piuttosto chiaro che lei non mangia per fame, bensì per sollazzo, gioia, gusto, festa, buon auspicio, capriccio. “Amo la pasta ed essere unta d’olio d’oliva più della vita stessa” è il messaggio con cui chiude il filmato, e siccome a nessuno, nemmeno alla Coldiretti o a Canavacciuolo, è venuto in mente di nominarla donna dell’anno, qui ci si arrischia a farlo, non solo e non tanto per il video in sé, quanto per la di lei risposta ai sermoni valoriali indirizzatile proprio per le immagini scandalose.
I critici sono riusciti a rimproverarla, oltre che della solita reificazione di sé e del corpo femminile, di sfregiare la fame nel mondo (come fosse un ideale) e di indulgere nello spreco alimentare. Lei ha risposto: “La sessualità femminile e la sensualità, non importa quanto condizionate da un ideale patriarcale, possono essere molto efficaci per una donna”, e poi ha aggiunto che “essere sexy è divertente e mi piace: non mi scuserò mai per questo”. Sono seguite lettere aperte, proteste, irrisioni. Carla Bruni le ha consigliato di infondere “empowerment” indossando maglioni. Marie Claire Italia l’ha presa alla lontana e prima le ha contestato cognome (“un codice fiscale”) e bio (“modella, attrice, attivista”) e poi le ha impartito una lezione su chi è attivista per le donne e chi no, cos’è femminismo e cosa no, ricordandole che la disinibizione sessuale vi rientra per un pelo e, comunque, a patto che non abbia uno scopo commerciale.
Ma la stessa indignazione non divampò quando Dior, a marzo, vestì le sue modelle con una t-shirt che recitava “Dovremmo tutti essere femministi”: in quel caso abbondarono gallery magnificanti, ricostruzioni storiografiche di come quelle magliette, da fruit of the loom per proletarie, fossero diventate capi per passerelle. Marie Claire, in quell’occasione, si limitò a domandarsi quale fosse il confine tra reale impegno e mera operazione di marketing, come fossimo negli anni Settanta dell’Ottocento, quando ancora etica, morale, formazione, educazione non erano affidati alla pubblicità, oggi più indagata e accorta di un qualsiasi programma scolastico, non certo per volere di Emily Ratajkoswki. Di vibranti editoriali contro una bellona che commercializza e monetizza un ideale ne abbiamo letti parecchi, quest’anno (ricorderete cosa venne recapitato a Emma Watson per aver mostrato mezza tetta a Vanity Fair: azione ritenuta incompatibile con il suo essere femminista e ambasciatrice dell’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile).
Femminismo è scelta. Sicure?
Però, proprio quest’anno, le bellone hanno cominciato a rispondere che l’esibizione del corpo e del piacere è un atto femminista perché “femminismo è scelta” e la cosa ha creato il solito, anacronistico corto circuito tra vecchia e nuova guardia, tra femminismo e femminismi, tra donne libere e donne e basta, tra corpi da accettare e corpi da desiderare. Faide sulle quali Emily Rata non sorvola – come prima di lei hanno fanno le top model degli anni Novanta – ma si diverte a solleticare, dotata com’è del corpo giusto per incarnare il femminismo chiavi in mano, così come è stato voluto dal mantra dell’empowerment: tutto ciò che farai in nome delle donne e dell’autodeterminazione sarà buono e giusto. E’ troppo? Pare di sì. Ma visto che alla liberazione sessuale si lavora da sessant’anni, con magri risultati, cedere il timone a una ventiseienne che ama l’olio di oliva e la pasta più della sua stessa vita e non si vergogna di piacere e godere, in coda all’anno che ha proclamato “femminismo” parola dell’anno, dopo mesi di scudisciate del maschio, potrebbe rivelarsi un’idea felice.
L’Orma Editore ha pubblicato di recente Doris, la ragazza misto seta. Irmgard Keun lo scrisse nel 1932. A un certo punto, la protagonista dice: “Sono una bomba sotto ogni punto di vista”. E poi andate a leggerlo voi cos’è in grado di fare una così, che si ama a cuor contento, alla stregua della nostra cara Emily.
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