La banalità del ma
Così sui social i benintenzionati incitano alla gogna nascondendosi dietro a una congiunzione
Uno spettro si aggira per i social: il benintenzionato. Osiamo un identikit? Nella maggior parte dei casi il benintenzionato su Twitter dispone di una bio perentoria (spesso si autodefinisce doc: comunista doc, pacifista doc, vegano doc) e ama inalberare, sulla navicella del suo ingegno, a mo’ di vessillo, il verso “in direzione ostinata e contraria”: è il suo fulgido autoritratto preso a prestito, questa lapidaria natura viva con rivoluzionario, monito solenne che gronda autoconsapevolezza, ogni goccia della quale cola per biasimare tutti noi che, flosci e prevedibili, procediamo impartecipi del pensiero indomito e rispettiamo il codice della strada. Il benintenzionato non ha tempo da perdere e mostra una perpetua mancanza di sense of humor. Provate a rivolgervi a lui ironizzando, e verrete trattati con somma degnazione, quella tipica (sopraccigliare prima, sintattica poi) dell’Impegnato costretto suo malgrado ad abbassare lo sguardo verso il pantano della mediocrità altrui. Alle vostre lepidezze da disimpegnati risponderà, il benintenzionato, sì che risponderà – dopotutto siete popolo –, ma lo farà rivelando a ogni sillaba la sua perniciosa tendenza alla sentenza e al fraseggio apodittico, prendendo le distanze dalle pinzillacchere e riaffermando il dogma che innerva l’incontestabilità dei suoi motti (incontestabili per elezione? per acclamazione delle Muse? Non è dato sapere, solo patirne).
C’è stata un’epoca felice dei social, che chiameremo età Antica, in cui il benintenzionato si limitava a benintenzioneggiare: impreziosiva foto di animali abbandonati con didascalie di cruccio, esprimeva a più riprese generica ripulsa per la violenza, rilanciava frasi sulla libertà e vecchi girotondi, insomma, tutta la sua innocua sagra acquacaldista in fin dei conti immolesta. Poi – età Moderna – il benintenzionato fece un salto di qualità: si convinse che Twitter aveva fatto la rivoluzione in nord Africa, se ne eccitò, e cominciò a chiedere, anzi a pretendere, pubbliche sollevazioni in nome di tutto quel che pareva a lui, prorompendo in requiem per tutti i fidelcastri (il barbuto habanero detenne il record mondiale di morti apparenti sui social) e rombando coi suoi inesausti inni antiliberisti, antiSì, antiSe, antiAnti (la versatilità negatoria del benintenzionato è inenarrabile). E fin qui tutto ok, eravamo alla farsetta parolaia con risvolti perfino divertenti. Ora, però, siamo nell’età più preoccupante: quella dell’incontro tra il benintenzionato e il culto grillino della mazzata sconsiderata. Un esempio? In merito al voto sullo ius soli, nei giorni scorsi, un benintenzionato da social pubblicava questo tweet: “Non amo le pubbliche liste di proscrizione, ma ritengo doveroso contribuire a far conoscere i nomi dei parlamentari che per razzismo, ignavia, opportunismo…” (il benintenzionato sa essere malintenzionato, quanto a capi d’imputazione) “…hanno affossato la legge. Prendiamo nota”.
Non sono razzista, ma…
Ebbro di quel “ma” e di ritenere un dovere farsi forza motrice delle consapevolezze altrui, il benintenzionato, a obiezione circa il sistema usato (in flagrante odor di gogna, a parere di chi scrive), rispondeva che i dati sono pubblici e il problema non esiste. Fingendo di non capire che un conto è un elettore quando cerca legittime informazioni su un sito preposto, un altro è un agitatore che sventola uno straccio imbevuto di sangue davanti alle froge dei tori da social, spronandoli alla fatwa. E poi: si può prescindere dal fatto che questa operazione avvenga in ambienti in cui si alimentano scorrerie, risse verbali ed eccitazioni indebite, nemiche di ogni distinzione? Abbiamo un’altra idea della democrazia, e il problema è proprio nel ma. “Non sono razzista, ma”. Il ma è un lasciapassare che tutto giustifica, un mani-libere grammaticale. “Non amo le liste di proscrizione, ma” – e intanto si proscrive, accettando la deroga. Tra un benintenzionato e un pessimo risultato c’è sempre un ma. E’ solo un ma, certo. Infatti la chiamerei: la banalità del #ma.
Abituati alla tragedia