Marina, l'arte di vivere en plein air
Fu bella, elegante e scostumata. Con tendenza all’happy ending. Mancherà per la luce del suo volto e la sensualità del suo corpo, specie il linguaggio del suo corpo, e mancherà per tutto il resto
Marina Ripa di Meana fu bella, elegante e scostumata. Mancherà per la luce del suo volto e la sensualità del suo corpo, specie il linguaggio del suo corpo, e mancherà per tutto il resto, i numeri da circo, le iniziative coraggiose, le torte in faccia del suo meraviglioso cabaret, certi libri freschi di memorie e gossip, naturalmente i suoi amori scorrettissimi e a loro modo felici, in particolare il legame fortunato, assoluto, d’acciaio, con Carlo, definitiva incarnazione della sua tendenza all’happy ending. In un certo senso che va oltre la sofferenza e la sublima, tipico atteggiamento di Marina di fronte alla sua lunga malattia, si può dire di una donna così: “La morte le fa un baffo”.
Però non c’è più il suo attivismo mondano, che fu vernice di una vita pubblica spesso riscattata dalla noia e dall’eccesso di senso, scompare la sua geniale idea di scandire l’esistenza di quarantennio in quarantennio (“I miei primi quarant’anni” fu un suo libro divertentissimo e baciato dal successo), tramonta come trovata pop la sua collezione di cappellini e velette, la sua abilità stilistica nei mille mestieri, nelle improvvisazioni, e anche nell’impegno di lunga durata alla visibilità, che non è solo sciatteria sottoculturale buona per un certo demi monde, è anche un giocare con il tempo, con l’età, un farsi gioco di un eccesso di permanenza e di insostenibile pesantezza nel mondo dei media, da lei corteggiato e sbeffeggiato in un album di apparizioni e fotografie e pose che ha fatto epoca.
Marina Ripa di Meana adorava le persone e i gruppi coltivati, spensierati, anticonformisti, ricchi: di talento, di denaro, di conversazione. Del salotto informato, ma caciarone all’occasione, litigioso, perfino sornionamente grossolano, fu regina senza rivali. E ai tempi dell’avanguardia artistica romana i suoi celebri amori dissoluti e volitivi, sospesi tra gioielli e valori plastici, esperimenti e droghe, sesso e altre dolci manie, dettarono l’agenda della follia e l’incantesimo dei palazzi trasformati in cantine e delle cantine trasformate in palazzi, come in una successione warholiana di favole artificiali, acriliche, incuranti delle vendette della vita, che sono sempre la malattia e la morte e altri intrusi. Aveva una bella casa in Prati, sempre aperta e ospitale, dove il suo gioco coniugale con il marchese suo marito si dispiegava nell’ironia e in una certa noncuranza alla quale si associavano curiosità e amicizia. Nella sua vita l’incidente o la rissa erano sempre dietro l’angolo, i suoi nervi erano corde ben tese di violino, e scintillavano con il suo timbro vocale inconfondibile anche quando il risultato poteva sembrare troppo incandescente, addirittura grossolano.
Ora si scatenerà la ricca aneddotica del suo vitale marasma di tanti anni, dei suoi periodi blu, oro, rosa, cubista, come una successione di scuole picassiane. Si dirà che qui fu cattiva, impertinente, qui fu generosa, tenace, qui futile, qui indispensabile, qui maliziosa e qui ingenua, qui amante, qui sposa, qui madre, ma l’unico giudizio che la riguarda davvero è che nell’arte di vivere en plein air nessuna fu come fu lei.