Aziz Ansari

Il consenso non basta. Nuove frontiere del #MeToo: anche il bad sex è molestia

Simonetta Sciandivasci

Il caso dell'attore Aziz Ansari sembra un vecchio film di Verdone

Roma. “Ma che te lego, alle 10 di mattina? Famole la sera ste cose, dai, non ci sta nemmeno lo spago”, dice il povero Romeo (Verdone in Sono pazzo di Iris Blond, 1996) alla chanteuse belga che ogni mattina lo sveglia e lo costringe a sessioni di sesso sfrenato. Lo fa previo consenso: “ça va?”, gli chiede, mentre lo fruga, scapiglia, scarmiglia, implora. E lui, assonnato e rassegnato, ringhia: “ça va”.

 

 

“Come desideri che ti scopi?”, ha chiesto Aziz Ansari, attore fresco di Golden Globe ritirato con tanto di spilletta Time’s Up sulla giacca (è un noto femminista) a una ragazza la quale, dopo essere andata a cena con lui, essere salita a casa di lui, essersi un po’ spogliata su richiesta di lui (ma poi rivestita), avergli opposto molti no non verbali, qualche bacetto e qualche richiesta (verbalizzata) di fare le cose con più calma, ha raccontato i dettagli della “peggiore serata della mia vita” a un portale, Babe, che si fregia di avere uno staff la cui età media non supera i 23 anni e di raccogliere testimonianze di ragazze molestate, violentate o, come questa, costrette ad affrontare quello che undici anni fa era materia da commedia di Verdone: può capitare, quando si va a letto con qualcuno e dintorni, di cedere più al dovere che al piacere.

 

La ragazza ha raccontato di essersi sentita violata. Di non essere riuscita a svignarsela al primo “dai, mettimi la mano qui”, perché non riusciva a credere che un ragazzo che ha costruito la sua carriera e la sua immagine pubblica sulla gentilezza, potesse essere così inebetito dal desiderio da fregarsene dei suoi dinieghi. Lei ha maturato la decisione di deliziare il pubblico mondiale con un racconto molto dettagliato della vicenda – tanto da farsi accusare da Caitlin Flanagan sull’Atlantic di revenge porn – quando, il giorno dopo, Ansari le ha scritto per dirle che era stato bene. Lei però gli ha risposto che la pensava all’opposto, ottenendo peraltro le sue scuse. Una pratica infrequente tra prevaricatori misogini, ma non facciamoci incantare dalle accortezze formali. Son giorni che l’occidente ne discute, dividendo vecchie e nuove femministe, vecchie e nuove idee di mondo. Rispetto alla destrutturazione del consenso condotta dal #MeToo questo episodio è cruciale. A Flanagan dell’Atlantic e a Weiss del New York Times, che si sono dichiarate stordite dall’incapacità delle giovani donne di dire no anche in situazioni dove né sono sottoposte a un ricatto né rischiano la propria incolumità – “leggevamo giornaletti che ci insegnavano a fare le mogli, non le donne in carriera, eppure sapevamo sottrarci” – e hanno scritto di non avere intenzione di vidimare movimenti che santificano l’impotenza femminile e criminalizzano il bad sex, il sesso imbarazzante e volgare, è stato risposto che, invece, è arrivato il momento di “dare al consenso una norma” (Megan Garber sull’Atlantic) che tiri fuori le donne dallo schema per cui il sesso è esclusivo piacere maschile che le donne hanno il dovere di soddisfare e, soprattutto, che chiarisca che la disponibilità al sesso si veicola solo e soltanto con entusiastici, pieni, urlati “sì, lo voglio” (formula che non si pronuncia con convinzione neanche davanti all’altare, ma saranno dicerie patriarcali). Come fare? “Il nostro standard non dev’essere più cosa è legale o illegale, ma cosa è giusto”, ha scritto Jessica Valenti del Guardian.

 

C’è una puntata di “Black Mirror” in cui gli esseri umani hanno a disposizione un sistema che li fa accoppiare con l’anima gemella, calcolata tramite algoritmo. La protagonista è costretta ad andare a letto con un numero assai alto di uomini che ripugna, sebbene il sistema serva a risparmiarla proprio dal gusto amaro della relazione sbagliata, del sesso concesso senza troppa convinzione o sprofondato nel mistero dell’altro. Dioniso, scrive Calasso in Le nozze di Cadmo e Armonia, non è un dio che tesse, ma un dio che scioglie. Possiamo sfinirci per rimodellare le nostre rudimentali etichette sessuali, lavorare per togliere dalla testa ai maschi che una donna non è ontologicamente remissiva e alle femmine che un maschio non è nato per predare, ma non estrometteremo mai il sesso dalla vita, quella cosa che accade tra il forse che sì e il forse che no.

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