La grande vecchiaia. In Lombardia il vero tabù non sono le razze ma le culle
La piramide invisibile della campagna elettorale
Roma. Il grande tabù politico, ovvero il tracollo demografico dell’Italia avviata a dimagrire di diversi milioni di abitanti nei prossimi trent’anni, è entrato lunedì scorso nella campagna elettorale nella forma tragicomica della “razza bianca” evocata da Attilio Fontana. E’ proprio la Lombardia a fornirci una radiografia esemplare del futuro di bare anziché di culle che attende l’Italia senza una immediata inversione di marcia. Una inversione considerata utopistica dagli esperti, perché è difficile uscire dalla “trappola della bassa fertilità”, che nel caso della prosperosa e popolosa Lombardia è bassissima. In Lombardia la demografia “tiene” soltanto grazie alla forte immigrazione. Il segreto della stabilità di una piramide demografica è un’ampia base di giovani e una punta stretta di anziani. In Lombardia si è rovesciata.
In un solo anno, Brescia ha perso 415 nascite. Nel 2002 le nascite furono 1.774. Nel 2016 sono state 1.552. Nel 2016 a Brescia c’è anche stato il record di decessi, il dato più alto mai registrato dal Dopoguerra. Quasi più di mille morti al mese dal 2015, più venti per cento rispetto a vent’anni fa. Nel 1973, a Brescia, il tasso di natalità, il rapporto tra nascite e popolazione, era di 15,5 ogni mille abitanti. Nel 2013 quel rapporto era sceso a 8,4. La metà. Lo si vede nelle scuole. Il calo maggiore è registrato in quelle dell’infanzia, dove in un anno si è passati da 3.935 studenti a 3.473. Cinquecento in meno.
Bergamo ha letteralmente dimezzato le nascite in dieci anni, toccando il minimo storico. In provincia di Como nasce quasi un bambino in meno al giorno (257 in meno in un anno). E il saldo naturale – differenza tra nascita e decessi – sembra un bollettino di guerra: 620 neonati iscritti all’anagrafe a fronte di 1.050 cancellazioni per morte.
Cremona è una città di vecchi, con gli over 65 al 26,8 per cento, ben più della media italiana (22,3). Il dato sui nati è il peggiore degli ultimi vent’anni: solo 478 nati nel 2016, contro gli 853 morti. Crema ha perso cinquecento nascite in dieci anni: si è passati dalle 1.287 nel 2008 alle 710 nel 2017. Anche a Lecco, il numero delle persone che muoiono supera quello dei nati.
A Mantova, meno 593 bambini in età scolastica in appena due anni. Sondrio ne ha persi trecento in cinque anni. A Monza tre anni fa le nascite erano state 1.036, scese adesso a 914. Duemila nascite in meno in diciassette anni. In provincia di Varese, la differenza tra nati e morti è passata da 1.372 a 1.656. Negli ultimi due anni è stata decisa o pianificata la chiusura di diversi punti nascite nelle province di Varese, Bergamo, Cremona e Pavia. Di questo passo, nel 2035 Varese avrà appena 71mila abitanti degli attuali 81 mila, secondo il Centro di ricerca per lo sviluppo del territorio dell’Università Liuc.
Milano, dove ci sono più aziende che neonati, ha perso letteralmente la metà delle nascite in appena dieci anni. 17.681 nascite nel 2006, 13.682 nel 2014, 12.688 nel 2015 e giù ancora l’anno scorso. Dal 2006 al 2016, i nuovi bambini sono passati dai diciassettemila all’anno a diecimila. Il record di nascite a Milano ci fu nel 1964: 27 mila. Da allora hanno iniziato a diminuire fino a quando, nel 1976, sono diventate minori dei decessi. Da allora il saldo naturale (nascite meno morti) è stato sempre negativo. Per avere una proporzione, nel 1880 Milano era abitata da 350 mila persone. E quell’anno nacquero diecimila bambini. Oggi Milano è abitata da 1.362.000 persone, ma adesso nascono comunque diecimila bambini. Quindi, mettendo i numeri in rapporto, a Milano 138 anni fa nascevano il quadruplo dei bambini di oggi.
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