L'antidoto migliore all'ondata di #MeToo è un trattato umoristico del XV° secolo
Le donne, gli uomini e "le quindici gioie del matrimonio"
Bella lezione di umorismo: arriva dal Quindicesimo secolo, la firmò un vescovo, e grazie alla sostanza densa, alla forma svelta e alle fattezze di trattatello (il piglio è ragionativo ma costellato di repentine alzate d’ingegno teatrale, a lampi di botta e risposta che meriterebbero rappresentazione) ha conosciuto un perdurante successo nei secoli. Il fuoco d’artificio si intitola “Le quindici gioie del matrimonio”, è attribuito all’avignonese Gilles de Bellemère e tripudia in quindici capitoli che, con profusione di razzi, lapilli e girandole, fanno brillare (nel senso di “saltare in aria”) la cosiddetta rispettabilità matrimoniale: quindici gioie che sono quindici stazioni di una tragicomica Via Crucis, raccontata senza riguardi né verso gli uomini – deboli, poco furbi e soccombenti – né verso le donne – frivole, opportuniste e manipolatrici. Prova di forza, ininterrotta molestia reciproca, cinico sprezzo della debolezza: secondo Bellemère il matrimonio è questo, null’altro che campo di battaglia, regolamento di conti, “giuoco per chi sa giuocare”. Il prologo recita inequivoco: “Si può dire che non ha buon senso colui che, in gioia e letizia, nel fiore della gioventù, di sua libera volontà e senza necessità alcuna, infili l’entrata di una prigione stretta e dolorosa, piena di gemiti e angoscia, e vi si butti dentro.” Similitudine non mente, ma il prosieguo mente ancor meno e le gioie vengono enumerate in ordine cronologico, tale da coprire tutto l’arco drammatico della vita a due – o a tre, o a quattro, e non si sta parlando di figli. Si comincia dal principio, quando il giovane è nel fiore degli anni. Se la spassa con una donna? Desidererà sottrarsi quando sarà ormai troppo tardi, la morsa-matrimonio lo stringerà e la moglie darà il via alla sua inesauribile carriera di richiedente ausilio (sempre economico ma di proporzioni variabili, che sia costoso fronzolo o mancetta con cui retribuire il valletto che agevoli il contatto con un “galante”).
“Sapete bene che avrei potuto sposare il tale o il talaltro e più di altri venti, che mi avrebbero preso con la sola camicia” è il refrain che costei scaglierà contro la micragna del marito, buttando tutto in pianto finché il malcapitato cederà e le comprerà abiti costosi a credito, firmando obbligazioni e cadendo in povertà, “ma tutto questo gli farà piacere”, ignaro, il poveretto, che nel frattempo, riccamente vestita, la moglie lo sta denigrando in pubblico, complottando con le amiche e un cugino che cugino non è affatto; perché mentre un uomo, eterno Pangloss della credulità amorosa, pensa che la propria moglie sia la migliore possibile, lei no, e ne dirà sempre peste e corna. Ma questo è solo l’inizio, perché poi la moglie resterà incinta, l’indolenza la renderà bisbetica, il marito galopperà per nove mesi e al momento del parto, munto e sfinito, dovrà occuparsi anche della corte di amiche, dame e comari che irromperanno nella dimora e si rimpinzeranno per giorni a sue spese, “attingendo direttamente alla botte”. Una gioia dopo l’altra, il ritmo vorticoso di un’ubriacatura da felicità domestica: arriveranno cinque o sei figli, l’uomo passerà notti cattive e giorni peggiori, sarà impoverito, logoro e amareggiato per il sesso che gli è stato negato (però la moglie non l’ha negato a nessuno dei cosiddetti cugini, infatti sarà sempre più giovane e in forma), e alla fine – trama ineluttabile – si ritroverà schiacciato e vinto dalla più antica e sanguinosa guerra di potere che esista, impossibilitato a sottrarsi e ignaro delle macchinazioni della moglie che starà brigando per maritare la figlia (già incinta).
Il libello finisce purtroppo con una promessa mancata (“se le donne volessero che io scrivessi a loro difesa e a carico degli uomini, ho materiale ancora migliore di questo, considerati i torti, i dolori e le oppressioni che gli uomini infliggono alle donne, con violenza e senza ragione”) ma per fortuna con una limpida ammissione: “Senza di esse gli uomini non potrebbero vivere.”