La donna che all'inizio del mese scorso, durante alcune proteste a Teheran, si tolta il velo in strada

Ci vorrebbero me too anche per elogiare le donne senza velo dell'islam

Claudio Cerasa

Se l’esercito del me too avesse dedicato alle donne che hanno avuto la forza di scoprirsi il volto in alcuni paesi come l’Iran un millesimo dell’attenzione dedicata agli uomini predatori avremmo avuto qualche caccia alle streghe in meno e qualche diritto rispettato in più. Una bella storia inglese (e un post scriptum sull’Italia)

Meno me too, più Sara Khan. Se volete prendere un po’ di ossigeno e recuperare fiato dalla lettura delle liste elettorali (sulle quali poi vi diremo qualcosa che ci riguarda nel post scriptum di questo articolo) c’è una formidabile storia inglese che andrebbe messa da parte e che meriterebbe di essere messa a fuoco anche da chi andrà a guidare il prossimo governo italiano. La storia arriva dal governo britannico, arriva dal ministero dell’Interno e arriva in particolare da una scelta del primo ministro inglese, Theresa May, e da una promessa annunciata all’indomani della strage di Manchester del maggio 2017: costruire una commissione governativa dedicata interamente alla lotta contro l’estremismo religioso – e in particolare contro quello islamico. Le commissioni, si sa, e l’Italia lo sa bene, sono spesso delle scatole cinesi che nascondono confezioni vuote, fatte di buoni propositi che regolarmente restano immobilizzati nell’almanacco delle buone intenzioni. Eppure, la commissione contro l’estremismo voluta dal primo ministro inglese Theresa May presenta, ameno dal punto di vista simbolico, un tratto significativo, per una ragione legata alla figura individuata dal governo inglese per incarnare la lotta contro la furia islamista: una donna. E in particolare una donna musulmana. Il nome della donna è un nome che dovrebbe essere familiare ai lettori del Foglio.

  

Si tratta di Sara Khan, una giovane musulmana cresciuta in Gran Bretagna che un paio di anni fa ha fondato un piccolo e geniale movimento di nome “Inspire”, che pur non avendo avuto grande successo dal punto di vista mediatico ha contribuito a portare avanti una idea importante: non si può combattere il fondamentalismo di matrice islamista senza che siano per prime le donne musulmane ad alzare il velo sulle ipocrisie dell’islamicamente corretto e sulla condizione drammatica in cui spesso si ritrovano a vivere le donne di fede musulmana. Ci vorrebbe meno me too e più Sara Khan nel senso che forse avete già immaginato: se le donne di tutto il mondo trasferissero una piccola porzione della passione messa in campo nella battaglia contro le molestie nella battaglia in difesa dei diritti delle donne costrette a vivere in un regime di sottomissione a causa delle leggi del Corano, molto probabilmente, lo diciamo senza retorica, ci sarebbe un mondo migliore. Su questo giornale lo abbiamo scritto più volte ma vale la pena ripeterlo una volta per tutte: il fondamentalismo islamista, che continua ogni giorno a comprimere la libertà di milioni di musulmani in quei paesi e in quelle famiglie dove alcuni principi della sharia vengono applicati con una violenza non troppo diversa rispetto a quella che abbiamo osservato per anni tra le fila dello Stato islamico, non potrà essere combattuto in modo profondo se prima non verrà messa a fuoco qual è la cornice della religione che ispira quella forma di integralismo. E se prima non verrà inquadrato un fatto elementare: l’orrore che suscita in ciascuno di noi ogni attentato di matrice islamista non è così diverso dall’orrore che c’è, ma che non vogliamo vedere, che colpisce ogni giorno milioni di donne musulmane la cui vita è spesso segnata (non sempre per fortuna) da una rigida interpretazione di un versetto del Corano (2:223): “Le vostre donne sono come un campo per voi, venite dunque al vostro campo a vostro piacere”. Sono due facce di una violenza simmetrica che trova linfa in una precisa interpretazione del Corano e che non si può combattere se non saranno le donne a essere in prima linea nel difendere i diritti delle donne sottomesse dalla sharia.

 

A suo modo, negli ultimi anni, Sara Khan ha fatto questo. Ha denunciato a ogni latitudine la condizione di schiavitù in cui, tra lapidazioni, infibulazioni, stupri, mutilazioni genitali, matrimoni infantili, torture e giganteschi apartheid di genere, spesso vive una donna musulmana e ha cominciato a farlo in modo sempre più deciso ai tempi del governo Cameron, quando da ministro dell’Interno proprio Theresa May rivolse un coraggioso appello alle donne musulmane che sarebbe bello poter sentire anche dalla voce di un ministro del prossimo governo italiano: “Muslim women must challenge extremism and fight the Islamic State”. Il discorso è ovvio. Laddove aumentano i veli e laddove aumentano i burqa e laddove aumentano i casi di sottomissione della donna c’è una buona probabilità che aumenti anche il radicalismo violento. Laddove i veli diminuiscono, laddove i burqa spariscono, laddove le donne vengono rispettate e non sottomesse c’è una buona probabilità che diminuisca il radicalismo violento. Tempo fa, con coraggio, il segretario della Cgil, Susanna Camusso, ammise, chiacchierando con il Foglio, che la salute di una società si misura anche dal trattamento che riserva alla questione femminile e riconobbe che sotto questa prospettiva la società arabo-musulmana o almeno una parte di essa rischia di essere fuori dalla storia. “La conquista della libertà della donna – disse Camusso – è un processo non ancora concluso e se un libro sacro come il Corano, attraverso la sharia, diventa il fondamento delle regole sociali, non può non sorgere un contrasto con le regole democratiche. La mancata libertà della donna pone un problema democratico perché comporta la negazione del diritto di cittadinanza per almeno metà della popolazione”.

 

Nel mondo di oggi, per concludere, ci sono molti diritti per i quali le donne devono giustamente combattere e tra questi esiste anche quello che spinge a combattere contro i molestatori. Ma se negli ultimi mesi l’esercito del me too avesse dedicato alle donne che con coraggio hanno avuto la forza di scoprirsi il volto in alcuni paesi come l’Iran un millesimo dell’attenzione dedicata agli uomini predatori, avremmo avuto qualche caccia alle streghe in meno e qualche diritto rispettato in più. E dopo aver combattuto con successo le basi dello Stato islamico sarebbe bello ora ricordarsi che per combattere l’estremismo religioso non basta combattere i terroristi ma occorre mettere ogni giorno al centro del dibattito pubblico le basi del fanatismo. I diritti delle donne, se vogliamo, si difendono partendo da qui. Meno me too, più Sara Khan.

 

Post Scriptum.

 

Sabato scorso mi è capitata una cosa molto divertente: sono stato vittima di una simpatica fake news. Due importanti giornali italiani, non importa quali, hanno scritto sulle edizioni andate in stampa il 27 gennaio che il sottoscritto sarebbe stato in lizza per un posto in Parlamento, con il Pd. La storia è gustosa per molte ragioni ma prima di tutto perché permette di capire meglio cosa si intende spesso nel nostro paese quando si parla di una “notizia” politica. La candidatura di chi scrive non è mai esistita, nel senso che non è mai stata chiesta e mai stata proposta, ma quando due giornali importanti scrivono che esiste una cosa che non esiste non ci si può che appassionare alla storia e allora abbiamo provato a capire meglio che cosa è successo. E dunque, cosa è successo? Seguiteci per qualche riga. E’ successo che venerdì sera nel delirio generale della formazione delle liste del Pd qualcuno “dal Nazareno”, così ci hanno raccontato entrambi i cronisti che hanno scritto il loro articolo, ha detto che girava il nome del sottoscritto (probabilmente in quei minuti girava anche la voce che Zoff aveva appena segnato di testa da centrocampo) e per questo verso mezzanotte alcuni articoli sui candidati del Pd sono stati riaperti per aggiungere “quella voce che girava”. In politica le voci che girano sono sempre tante e di solito un cronista politico prima di pubblicare una voce che gira ha tre opzioni tra cui scegliere: fidarsi ciecamente della propria fonte e pubblicare la voce che gira; fidarsi ciecamente della propria fonte e provare comunque a verificare con la persona interessata dalla voce la validità della voce; fidarsi ciecamente della propria fonte senza verificare con la persona coinvolta dalla voce che gira la validità della notizia perché se quella voce che gira viene pubblicata da un altro giornale la voce che gira diventa un potenziale buco e dunque meglio dare una notizia non verificata che rischiare di prendere un buco. Con il sottoscritto è successo che una testata (l’Huffington Post) ha chiesto direttamente se la voce fosse vera oppure no e una volta contattato l’interessato ha capito che la voce era falsa e non ha scritto nulla. Altre tesate hanno fatto invece una scelta diversa e hanno deciso di pubblicare la “notizia” senza verificare se la notizia fosse vera o fosse fake ma puntando semplicemente sull’idea che se non avessero pubblicato quella “notizia” avrebbero probabilmente avuto un problema, nel caso in cui quella “notizia” fosse stata pubblicata da un altro giornale. La mattina seguente alcune agenzie hanno ripreso la “notizia” dei giornali dandola per certa (nessuno dei giornali che ha pubblicato la notizia ha usato il condizionale, la notizia è stata data con il verbo della certezza, l’indicativo) e alcune rassegna stampa hanno registrato quella notizia, sempre la mattina, precisando che il nome è circolato, sì, ma poi non è entrato in lista.

 

Il gioco della notizia che non c’è ma che circolando non si può non dare presenta spesso questo corollario: di’ una cosa prima che puoi per fregare gli altri, “o per non prendere il buco”, e se poi si scopre che la notizia non è vera al massimo puoi dire che quella pista è sfumata, ma comunque tu, anche a costo di dare una notizia falsa, quel giorno non hai preso il buco. In ventiquattro ore è stato tutto chiarito (anche se per uno strano principio italiano una notizia smentita spesso viene considerata come una notizia confermata: “e certo, ti pare che non smentiva…”). E la piccola fake news su di me, di cui sono stati protagonisti tra gli altri giornalisti solitamente molto bravi, si è risolta con un mio tweet. Ma questa storia, nel suo piccolo, dovrebbe farci riflettere su un dato che spesso noi giornalisti facciamo finta di non vedere. Una notizia per essere una notizia deve essere qualcosa che è accaduto davvero o una notizia per essere una notizia è sufficiente che sia qualcosa che semplicemente potrebbe essere accaduto? A volte le fake news arrivano sui giornali spinte dalla propaganda di qualche paese straniero. A volte le fake news arrivano sui giornali spinte solo dal terrore di non avere qualcosa che gli altri potrebbero avere. E ora scusate devo mettere un punto all’articolo, sennò non faccio in tempo a scegliere il collegio giusto.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.