Lauren Powell Jobs e il "social change" applicato ai media
Speriamo che arrivi Lauren a salvarci è l'invocazione più sentita nelle redazioni
Milano. E’ dal 2004 che Laurene Powell Jobs si occupa di “social change”, di iniziative che possono cambiare la società, tramite l’istruzione, la ricerca, la tecnologia, l’accoglienza, lo sport e l’informazione. Lauren, con la sua Emerson Collective, vale oggi venti miliardi di dollari, ha messo in piedi tantissimi progetti, soprattutto per le scuole e per la gestione dell’immigrazione, fa campagna contro il presidente Donald Trump nella Silicon Valley e si è dedicata molto agli investimenti nei media, intuendo forse che la gestione dell’informazione è diventata un’emergenza sociale. Suo marito, il cofondatore della Apple Steve Jobs, è morto più di sei anni fa, nel frattempo Lauren ha adottato la prima figlia del marito, che lui per molti anni non volle riconoscere, ha cresciuto i loro tre figli, si è fidanzata, ha comprato una quota nella proprietà del magazine Atlantic, ha chiuso in quattro e quattr’otto il gioiellino editoriale che aveva costruito l’intellettuale Leon Wieseltier, accusato di molestie (non ne è mai stato pubblicato nemmeno un numero), ha investito in Axios, l’outlet sforna-scoop fondato da Mike Allen con l’ex banda di Politico, sostiene ProPublica e il Marshall Project, ora sta parlando con i vertici di Buzzfeed – così ha scritto il Financial Times – e molti sperano che si possa occupare anche del Los Angeles Times, che è entrato in una crisi molto profonda, e dato che c’è magari anche del Rolling Stones. Mentre molti considerano la Powell come un Jeff Bezos con i capelli lunghi e biondi, un editore che non soltanto vuole portare un po’ di fondi nuovi (tanti) in un settore che ne ha bisogno, ma vuole rivoluzionare, illuminare, il modo con cui si fa informazione oggi. La Powell gioca – o chissà, forse fa sul serio – con la sua immagine di filantropa salvatrice del mondo dei media: in un incontro pubblico le è stato chiesto se punta a comprare il New York Times e lei ha risposto: “E’ in vendita?” e poco dopo ha aggiunto: “Penso che sia una patrimonio nazionale che debba essere protetto”.
Quel che accadrà con Buzzfeed non è chiaro. Le indiscrezioni rivelate dal Financial Times parlano di un possibile spin-off della sezione news dal resto della compagnia, ma anche se la visibilità di Buzzfeed è molto alta i suoi ricavi non sono nemmeno lontanamente sufficienti per coprire i costi. A oggi si sa che Ben Smith, il direttore del primo Buzzfeed, quello americano, ha incontrato alcuni manager di Emerson, ma allo stesso tempo, già nell’articolo dello scoop, si è detto che con tutta probabilità da queste chiacchiere non uscirà granché. Come ha scritto Joe Nocera su Bloomberg, ci sarebbe bisogno di un intervento della Powell per salvare il Los Angeles Times, che continua ad avere scossoni di ogni tipo, finanziari e di team editoriale, perché gli investitori non si fidano tantissimo di Tronc, la compagnia di Michael Ferro che, pur essendo nel business dei media da dieci anni, è considerato ancora e soltanto un “tech guy”, uno che viene dalla Silicon Valley e non capisce come ci si muove con scaltrezza tra i vari imperi mediatici (sul Los Angeles Times ha allungato per molto tempo gli occhi Rupert Murdoch, per dire).
Così tra investimenti veri, ipotesi e sogni, Lauren Powell si è ritrovata a incarnare il ruolo della vedova illuminata che cambia il mondo un pezzo alla volta, con un’unica priorità: il mantenimento di standard qualitativi alti. E ormai in tutti i giornali che soffrono – cioè quasi tutti – si sente ripetere, come un’invocazione: “Speriamo che arrivi Lauren a fare un bailout”.