#MeToo contro le Demoiselles di Picasso. Protesta femminista al MoMa
Gli asterischi sul corpo della performer Emma Sulkowicz contro l'artista spagnolo che aveva fama di essere un misogino predatore. E ora dateci sotto con Caravaggio
Roma. Alcune delle principali istituzioni artistiche degli Stati Uniti stanno dibattendo su cosa fare con le fotografie di Chuck Close, il più grande ritrattista americano accusato di molestie. Intanto l’artista Emma Sulkowicz, ponendosi alla testa di un gruppo agguerrito di femministe di #MeToo, si è portata avanti con il lavoro mettendo in scena spettacoli di protesta in alcuni grandi musei, cercando di fare pressione sui loro curatori.
In tre diverse azioni, Sulkowicz si è spogliata al Metropolitan Museum of Art, al Museum of Modern Art e a una stazione della metropolitana di Second Avenue, a New York. Indossando solo un paio di slip e con il corpo coperto di asterischi, l’artista si è fatta fotografare da Sangsuk Sylvia Kangcontro il pannello di Close in metro e davanti ad un altro dipinto di Close al Met. L’asterisco dovrebbe essere il simbolo per arrivare alla “nota” incriminata: “Un asterisco è un segno di punteggiatura così piccolo rispetto all’entità dell’abuso sessuale che colpisce queste donne”.
Le femministe di #MeTo vorrebbero che sotto le opere di Close fossero inserite delle didascalie in cui si spiega che l’artista in questione era un molestatore. Poi Sulkowicz è andata al MoMa di New York e ha fatto lo stesso di fronte a uno dei quadri più famosi al mondo, le Demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso, che aveva fama di essere un misogino predatore. Anche al MoMa la stessa scena, il corpo semi nudo dell’artista e gli asterischi.
Sohrab Ahmari, un giornalista di origini iraniane, passato dal Wall Street Journal a Commentary, ha scritto il libro “The New Philistines: How Identity Politics Disfigure the Arts” su come l’arte contemporanea è ormai ossessionata dall’identità politica. “Ogni forma e genere, sia alto o basso, visivo, letterario o delle arti dello spettacolo, oggi è ossessionato con la politica di razza, genere e sessualità. L’atmosfera ideologica del mondo dell’arte è così fitta e pervasiva che chi è dentro non si rende nemmeno conto dell’aria che respiriamo. Questo stato di cose dovrebbe allarmare chiunque abbia a cuore il futuro della civiltà liberale. Le società libere hanno bisogno di un’arte che aspiri a intramontabili ideali come la verità e la bellezza. Quando la cultura è ridotta a identità di gruppo e risentimento, la tirannia è dietro l’angolo”.
Basta pensare che il Museum of Fine Arts di Boston è stato accusato di “razzismo” per aver invitato il pubblico a provare il kimono indossato dalla moglie di Claude Monet, Camille, nel dipinto “La Japonaise”. E ora che si fa, dopo l’happening contro Picasso? Un’idea ce l’ha, per scongiurarla, Svetlana Mintcheva, direttrice della National Coalition Against Censorship, che sul Guardian scrive: “Rimuovere l’arte perché macchiata dai peccati del suo creatore pone uno standard impossibile per le istituzioni d’arte e che richiederebbe di agire come esecutori dell’ortodossia morale. Non più il chiaroscuro di Caravaggio, le sue belle e sensuali giovani modelle. Non più Picasso col suo famigerato slogan ‘le donne sono macchine per la sofferenza’; non più l’espressionismo di Egon Schiele che fu accusato di abusare sessualmente dei suoi modelli adolescenti; non più Eric Gill, che ha prodotto le sculture per le stazioni della croce nella Cattedrale di Westminster, ma che ha anche abusato sessualmente delle sue figlie. I musei avranno bisogno di più spazio in magazzino che nelle gallerie”.
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