Quell'orribile Sessantotto
Per l’occidente un altro 1939, “l’impazzimento di una cultura”. A colloquio con cinque intellettuali
Le immagini in bianco e nero degli studenti nel Quartiere Latino di Parigi domineranno una serie di mostre, libri ed eventi con cui la Francia si appresta a magnificare il cinquantesimo anniversario del Sessantotto. Non è chiaro ancora come Emmanuel Macron, il primo presidente francese nato dopo quell’anno, voglia celebrare l’“avvenimento”.
Intanto non poteva che essere lui, Eric Zemmour, a iniziare a pestare contro la ricorrenza con un lungo articolo sul Figaro. Il guastafeste delle lettere francesi scrive che il generale Charles de Gaulle fu “l’ultimo uomo prima degli adolescenti femminilizzati” e che il Sessantotto ha triturato tutto: “Famiglia, scuola, chiesa, partito, sesso, nazione, tutte le strutture gerarchiche e verticali sono state sovvertite e invertite. In nome della libertà, avremmo avuto solo diritti. In nome dell’uguaglianza, la società avrebbe avuto solo compiti a casa”. Il risultato non si è fatto attendere: “In nome della nuova religione dei diritti umani, il sacro principio di ‘non discriminazione’ ha affermato la tirannia del giudice e delle minoranze. Dopo la difesa del proletariato, la difesa delle minoranze. Dopo la lotta contro il capitalismo, la lotta contro il neocolonialismo. Dopo il comunismo, l’antirazzismo. Niente è più biologico, tutto è culturale. Fu la vittoria assoluta dell’esistenzialismo di Sartre”. I ribelli che salgono al potere e non lo mollano più. “E un potere che sostiene sempre di essere ribelle”. Il Sessantotto, conclude Zemmour, si è compiuto nella “disintegrazione delle società occidentali”.
Scruton: “Fu allora che decisi di ribellarmi contro la ribellione: valeva più la pena conservare la civiltà piuttosto che distruggerla”
Jean-Pierre Le Goff ha appena pubblicato “La Francia ieri. Dal 1950 al maggio ’68”, in cui afferma che il Sessantotto è stato “l’ètà dell’adolescenza” e rischia di diventare “un mito fondatore”. Di questo mito siamo andati a parlare con cinque intellettuali europei e americani molto critici nei confronti di quella ondata culturale.
A Parigi c’era Roger Scruton, oggi il più celebre intellettuale conservatore britannico. “Il maggio Sessantotto fu il mio momento del risveglio”, dice Scruton al Foglio. “Avevo ventiquattro anni e mi ero ribellato tutta la vita. E ora finalmente avevo trovato qualcosa per cui valesse la pena ribellarsi. Sono diventato un ribelle contro la ribellione. E così sono rimasto. Nella stradina sotto la mia finestra gli studenti urlavano e fracassavano. Quella sera arrivò un amico, era stato tutto il giorno sulle barricate con gente del teatro. La borghesia era in fuga e presto il vecchio regime fascista avrebbe implorato pietà. Certo che ero ingenuo, così ingenuo era il mio amico. Gli chiesi: che cosa ti proponi di mettere al posto di questa ‘borghesia’ che tu tanto disprezzi, e a cui devi la libertà e la prosperità che ti permettono di giocare sulle barricate? Per la prima volta in vita mia ho sentito un’ondata di rabbia politica, trovandomi dall’altra parte delle barricate e di tutte le persone che conoscevo. Improvvisamente mi resi conto che stavo dall’altra parte. Ciò che vidi fu una folla indisciplinata di teppisti mediocri e autoindulgenti. Quando chiesi ai miei amici cosa volessero, cosa stessero cercando di ottenere, quello che ho avuto come risposta è stato un lessico assurdamente marxista. Ne ero disgustato e pensavo che ci fosse una via per la difesa della civiltà occidentale contro queste cose. Così sono diventato un conservatore. Sapevo che volevo mantenere le cose piuttosto che abbatterle”. Secondo Scruton, lo scrittore francese che più ha colto il parricidio sessantottino è stato Louis Pauwels in “Les orphelins”. E’ il ritratto di “una società che perde i suoi figli perché ha perso la sua anima”.
Dreher: “Anche nella chiesa cattolica fu l’inizio di quella che Benedetto XVI definirà ‘dittatura del relativismo’”
Richard Millet, scrittore e saggista francese, ex editor della casa editrice Gallimard, nel Sessantotto vede una sorta di nuova crociata dei “bambini”. “Hanno trovato nel Maggio, Marx, Mao o Guevara, l’ideologia della ‘liberazione’ che sarebbe diventata la parola d’ordine che porta alla dittatura dell’etica e agli abomini della post-civilizzazione in cui viviamo”, dice Millet al Foglio. “‘Fai l’amore, noi ci occupiamo del resto’, ha sussurrato il nuovo liberalismo, da tradurre con: ‘Divertiti, ci pensiamo noi a te’. Meglio: ‘Sii un fantasma, vivremo al tuo posto!’. Così il maggio ’68 fu in grado di diventare socialista (alla francese), liberale (alla anglosassone), critico utopico, moralista (alla svedese). Il Maggio, in nome della libertà, della democrazia, dei diritti umani, ci ha portato a un morbido totalitarismo che ha scalzato il cristianesimo – più esattamente il cattolicesimo – a beneficio della branca protestante, invertendo ciò a cui l’onesto uomo europeo, erede di Atene, Gerusalemme e Roma, era stato educato. Quindi ci viene chiesto di negare noi stessi, di essere tolleranti, di accogliere l’altro che ci odia, sia nella forma dell’islamista sia in quella del bobo che si allea con l’islamista, o, in Francia, il ‘migrante’, una nuova icona intellettuale, letteraria, cinematografica. Ultimo avatar del maggio ’68, il migrante suona come la fine dell’Europa all’interno di una menzogna generale che consiste nel dire che tutto va bene. All’immenso Ezra Pound, nel giugno del 1968 fu chiesto cosa pensasse degli ‘eventi’ che avevano appena avuto luogo in Francia: ‘Il grande Pan è tornato’ rispose. Vide chiaramente che il ’68 ha confermato la scristianizzazione dell’Europa e il ritorno al paganesimo. Per noi, cattolici, è soprattutto la dimensione satanica del maggio ’68, l’inganno della società, l’incubo contemporaneo, la manifestazione anticristica. La nostra unica speranza di esorcismo sta nella resistenza dell’individuo e in ciò che rimane del buon senso dei popoli europei”.
Anche in America quella ondata ha avuto conseguenze nefaste. “Il Sessantotto segna una svolta nella cultura politica americana”, ci dice Joshua Mitchell, politologo della Georgetown University. “Le divisioni interne minacciarono di squarciare una nazione. E il decennio degli anni Settanta ha portato a una maggiore polarizzazione, la mancanza di fiducia nel governo (Nixon), il malessere generale (Carter) e la negazione della crisi. Viviamo oggi ancora all’ombra del 1968”.
Ancora più duro il classicista della California University, Bruce Thornton. “Il Sessantotto è l’annus terribilis dell’occidente del Dopoguerra, quando i bambini della società più ricca e libera della storia hanno iniziato a mordere la mano culturale e politica che li sfamava”, dice Thornton al Foglio. “Sebbene all’apparenza fallimentari nel realizzare una trasformazione rivoluzionaria – la pretesa farsesca degli anni Sessanta è stata riassunta nel graffito su un muro a Parigi, ‘Sono marxista, tendenza Groucho’ – la capitolazione dell’establishment liberal alle richieste dell’ignoto ha facilitato la ‘lunga marcia attraverso le istituzioni’ che ha eroso insidiosamente le fondamenta della civiltà occidentale. Dal nostro punto di vista, oggi, con l’Europa ridotta a un museo e gli Stati Uniti lacerati da una guerra civile culturale, il 1968 è l’equivalente di Auden del 1939, parte di un ‘decennio basso e disonesto’ che ha ‘fatto impazzire una cultura’ e l’ha condotta sulla sua strada verso il suicidio”.
Thornton: “Il 1968 fu l’equivalente del ‘decennio basso e disonesto’ di Auden. Ha eroso le fondamenta della nostra civiltà”
Anche secondo David Goldman, il columnist conservatore che si è a lungo firmato con lo pseudonimo di “Spengler”, nel Sessantotto affonda gran parte del malessere occidentale, compreso lo smarrimento americano che abbiamo sotto gli occhi di questi tempi.
“Prima del 1968, l’America aveva una religione nazionale unificante, vale a dire il protestantesimo liberale esemplificato dai fratelli Dulles”, racconta Goldman al Foglio. “Il suo atteggiamento nei confronti del mondo era ottimista, missionario: il superamento del colonialismo, il lavoro degli Stati Uniti, il progresso del movimento per i diritti civili e i valori del mondo libero avrebbero rifatto il globo a emulazione degli Stati Uniti. Il Vietnam ha schiacciato questa illusione. Ha esposto le élite americane come disoneste e incompetente e ha reclutato giovani americani cresciuti sull’etica dei Corpi di pace in una sporca guerra di logoramento. La guerra ha inorridito i giovani americani. Non è un caso che i generi cinematografici zombie e satanico-apocalittici siano nati nel 1968, l’anno dell’offensiva del Tet e dell’assassinio di Martin Luther King. Il consenso patriottico e liberal dei protestanti è collassato nell’America polarizzata che incontriamo oggi. L’America cristiana lasciò le chiese liberali per il movimento evangelico e l’America liberal abbandonò del tutto la religione (coloro che non professano una religione sono passati dal 7 per cento nel 1972 al 23 per cento nel 2016). L’America patriottica ora tende a favorire il ritiro dal mondo piuttosto che a combattere i suoi mali. Il sentimento d’obbligo verso la comunità è il più basso nella storia degli Stati Uniti e non sarà mai recuperato”.
Ma il Sessantotto ha avuto una influenza profonda anche sulla chiesa cattolica. E’ quello che indica come decisivo Rod Dreher, editor della rivista American Conservative e autore del bestseller “L’opzione Benedetto”, in Italia in uscita a luglio.
Goldman: “Fu l’inizio del pacifismo e del ritiro dell’America dal suo ruolo nel mondo. Le conseguenze le vediamo oggi”
“I sessantottini non sono venuti fuori dal nulla, ma non c’è dubbio che la loro generazione, e l’anno che ha dato loro il nome (almeno in Francia), ha segnato la traversata del Rubicone per la civiltà occidentale”, dice Dreher al Foglio. “Il declino della chiesa, il crollo della famiglia tradizionale, la degenerazione della politica, possiamo ricondurre tutto agli eventi degli anni Sessanta, che raggiunsero un crescendo nel 1968. Negli Stati Uniti, i conservatori credevano che Ronald Reagan sostenesse una controrivoluzione, una sollevazione dalla maledizione generazionale. In un certo senso, lo ha fatto. La pazzia degli anni Sessanta e Settanta cessò. E, mentre invecchiavano, i sessantottini hanno iniziato a crescere le loro famiglie. Ma il 1968 sta facendo un grande ritorno, in parte perché i sessantottini hanno marciato fedelmente attraverso le istituzioni della formazione culturale. Molti conservatori statunitensi credevano erroneamente che fosse sufficiente competere per l’ufficio politico e ottenere il potere giudiziario. In realtà, il vero potere di cambiare una civiltà sta nella cultura. Il marxismo può essere stato sconfitto sotto molti aspetti, ma come profetizzò Augusto Del Noce, l’impulso totalitario era in effetti compatibile con la democrazia liberale. Questo, credo, è ciò che intendeva Benedetto XVI quando disse che viviamo in una ‘dittatura del relativismo’”.
Come Del Noce, Joseph Ratzinger vide quello che stava succedendo negli anni Sessanta. “Fu nel 1969, solo quattro anni dopo il Concilio Vaticano II, che consegnò un discorso radiofonico in cui predisse il crollo della chiesa e della fede cristiana all’interno della nostra civiltà. Disse che la chiesa si sarebbe ridotta a un piccolo nucleo di credenti veramente convinti, ma che sarebbero stati la luce di un mondo oscurato, e il seme da cui far scaturire la riconversione dell’occidente. Abbiamo vissuto la prima metà di quella profezia. Sta a noi determinare se la seconda metà si avvererà”.
Chissà se il Sessantotto, più che un progresso, non sia stato, come diceva l’allora professor Ratzinger, “una svolta a rovescio nella scala della storia”. Resta ancora da capire, con Wystan Auden, quanto in basso ci abbia portato.
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