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Cosa succede alle donne?

Stefania Vitulli

Tra rivendicazioni mestruali e obesità voluta per evitare gli sguardi dei maschi, il neofemminismo selvaggio made in Usa arriva a far danni anche nelle librerie italiane

Lei avrà quindici anni. Lui anche, più o meno. Lei è sicura, quindi sembra bella, molto più bella di quello che è. Lui è imbranato, silenzioso, rigido, quindi non si capisce se è bello, nemmeno potenzialmente. I due fanno un giro alla Libreria Feltrinelli, in Piazza Duomo a Milano, camminano vicini, c’è attrazione senza complicità, sono due giovani animali guardinghi, usciti alla scoperta di se stessi in un primo pomeriggio di pioggia. C’è su una parete una serie di novità appena uscite, di una si vede proprio bene che la copertina è semplice e bizzarra, con un oggetto in primo piano che di sicuro ogni donna, ormai di ogni età e generazione, riconosce al volo. Lei afferra il volume, glielo agita davanti al naso e intanto sorride. Non è un sorriso ironico, è un sorriso prima nervoso, poi di lieve sopraffazione. “Guarda”, gli fa. “Concèntrati. Cos’è? L’hai già visto. Ma dove l’hai già visto?”. Poi gira il libro e legge, tutta intenta: “Perché ancora oggi le mestruazioni sono un argomento di cui ci si vergogna, che discrimina le donne? Perché per definirle usiamo perifrasi come ‘ho le mie cose’, ‘sono indisposta”, ‘ho il ciclo’? Perché ci imbarazza così tanto il modo in cui funzionano i nostri corpi? E se fossero gli uomini ad averle? Perché è giunto il momento della rivoluzione mestruale”. Alza la testa, lo guarda. Lei non lo sa, ma lui era già dell’idea di levarsi di lì quando lei ha pronunciato la parola “ciclo”: ci sono un paio di persone che li guardano e ridacchiano. Guardano soprattutto lui. Si vede dalla faccia che se lei fosse un maschio le darebbe volentieri uno spintone, invece non parla e spera solo che lei smetta di leggere ad alta voce. Poteva fare una battuta volgare o magari andarsene, ma è rimasto perché lei gli piace parecchio. Anche questo si vede dalla faccia. “Questo è il tuo sangue”, legge lei. “Manifesto contro il tabù delle mestruazioni”. “Oh, per te è perfetto. Dici sempre che non capisci come siamo messe. Guarda”. Alza la voce. “E guardalo, dai. E’ un tampax, mica ti mangia”. Ormai la guardiamo tutti. Lui però è scappato. Lei molla il libro, gli corre dietro e urla: “Te lo regalo per la Festa della Donna!”.

 

Questo è il mio sangue”, il libro della femminista francese Elise Thiébaut (Einaudi) – è stata ospite a Tempo di Libri, il Salone di Milano e l’ha fatta da padrone tra i titoli Einaudi perché l’esordio è stato l’8 marzo e il tema del giorno era, appunto, ‘Donne’ – secondo l’autrice ha due urgenze: la prima è che viviamo nel momento storico in cui le donne hanno il maggior numero medio di mestruazioni di sempre. Da 450 a 500 nell’arco di una vita. Mai fu versato tanto sangue in passato, in parte perché si moriva più giovani, in parte perché si avevano molti più figli. La seconda, pressante, ineludibile motivazione, secondo la femminista Thiébaut, è che di tanti tabù questo è uno dei più duri a morire e la ragione è strumentale: la “vergogna e il disgusto” che le donne vengono ancora oggi “costrette” a provare “per ciò che fuoriesce da sé” non è senza effetto “sulla considerazione che le donne hanno di se stesse. Questo impedisce loro di rivendicare il loro giusto posto nello spazio pubblico, di prender parte alla decisioni che le riguardano. In questo senso, il tabù delle regole è stato un strumento di dominazione molto efficace, mantenendole nell’ignoranza”.

 

Probabile che la Thiébaut – che si dice ora in menopausa, menopausa che l’ha spinta appunto a prendere in mano questo tema con viva partecipazione – non conosca l’adolescente milanese che ha brandito il suo libro con la stessa divertita determinazione con cui probabilmente brandisce i tampax da pochi mesi, né avrà mai sentito parlare di altre adolescenti francesi come lei, che esistono in gran numero. Probabile che la Thiébaut sia rimasta legata a uno stereotipo di femmina che ormai pare affliggere in maniera virale soprattutto il cervello di alcune femmine. O, ancor più probabile, che il suo femminismo somigli a un femminismo di prima generazione, in cui esibire in modo estremo parti e atti del corpo di solito nascosti per “buongusto” (il buongusto che permette di evitare che una cena si trasformi in una esibizione à la Monty Python, non la buona educazione borghese avversata ne “Il fantasma della libertà” di Bunuel) aveva un sapore di per sé rivoluzionario.

 

Se il testo della Thiébaut è meritevole di fornire alcune informazioni al consumatore (genere neutro, quindi anche a un padre che scelga assorbenti per sua figlia), tipo quella che ancora nel 2016 sono state trovate tracce di sottoprodotti industriali e di pesticidi in cinque campioni di tamponi e assorbenti sugli undici testati da una rivista francese, per il resto “Questo è il mio sangue” sembra un’altra azione di protesta che vuole incollarsi al #MeToo in cui il ciclo mensile diventa buono per far movimento e alzare bandiere e hashtag per difendere piccole opinioni e grandi fraintendimenti sulla storia industriale, geografica e di costume di uno dei prodotti più consumati degli ultimi poco meno che cento anni (l’invenzione del Tampax è del 1937). In una intervista sul suo libro da parte della rivista online Exagère, una delle domande risultava “Parlare senza problemi delle mestruazioni è una questione di genere che mette in gioco la libertà, ma anche l’eguaglianza. Purtroppo, da qualche tempo, si assiste a un oblio, soprattutto da parte della politica, dei temi legati all’equilibrio di genere e alla parità. In questo quadro, cosa significa oggi essere femminista?” e la risposta della Thiébaut suona così: “Certo, si assiste ad una sorta di rivincita maschilista che si esprime notoriamente con la crescita dei populismi reazionari d’estrema destra in tutto il mondo. Tuttavia delle nuove solidarietà femministe stanno nascendo e attraversano le sfide sociali, antirazziste, ecologiste e sessuali lottando contro tutte le forme di discriminazione”. E in tutto questo i dibattiti sulle mestruazioni, ça va sans dire, hanno avuto un ruolo chiave.

 

La rivendicazione mestruale, rispettabile se la si vive – come sospettiamo abbiano fatto gli editori che hanno dato spazio alla Thiébaut – come trovatina di marketing editoriale, diventa un altro colpo ben assestato alla credibilità femminile nel momento in cui le donne avrebbero voglia di finirla di rivendicare il rivendicabile e godersi semplicemente una buona boccata di duramente conquistata normalizzazione. A un terzo del volume, la Thiébaut pare recuperare il buonumore e inneggia a una ritrovata rappresentatività: milioni di donne hanno sentito che secoli di omertà venivano spezzati dalla nuotatrice cinese Fu Yuanhui alle Olimpiadi di Rio del 2016. E si sono riconosciute nella dichiarazione: “Oggi non sono andata benissimo, ho l’impressione di aver abbandonato le mie compagne di squadra. Ieri mi sono venute le mestruazioni, mi sento molto stanca”. Gioiamo dunque: libere dall’eredità machista di De Coubertin, abbiamo ripreso il controllo del flusso. E invece no, dietro il primo sollievo si nasconde un attacco assassino alla rivendicazione paritaria che la Thiébaut non manca di decifrare: la dichiarazione dell’atleta è un’arma a doppio taglio, che “Offre in tivù la spiegazione biologica che tutti si aspettavano per giustificare l’inferiorità delle donne nello sport”.

 

Ci si potrebbe fare una risata tutte insieme e, proprio come fa Bridget Jones con i manuali di autoaiuto, prendere “Questo è il mio sangue” e buttarlo nel cestino. Ma la verità è che lo spirito sottilmente paranoico che anima il volume è un venticello che nelle orecchie della gente si introduce destramente: abbassare lo sguardo sul sangue mestruale e sentire lo stesso odore di palude e violette appassite che ci sentiva la De Beauvoir nel 1949 significa, di nuovo con spirito #MeToo, negare il nostro tempo, abbandonare leggerezza e senso dell’umorismo – le due migliori espressioni emotive e linguistiche di vero potere – che abbiamo conquistato come donne occidentali per rimestare in un torbido che non ci appartiene più. “Negli Stati Uniti”, chiude il suo libro la Thiébaut, “le femministe della terza ondata parlano già di menstruators per designare le persone mestruate, che si riconoscano o meno come donne”. Chissà come le chiamerebbe la Deneuve.

 

Che cosa sta succedendo alle donne? Forse la risposta è nel ripescaggio di un’artista osteggiata, amata e poi dimenticata, di cui nel 2019 verrà esposto per la prima volta al National Museum of Women in the Arts di Washington: “The End: A Meditation on Death and Extinction”. Si chiama Judy Chicago, nata Judy Cohen da una famiglia ebrea progressista di Chicago nel 1939 e si è meritata la copertina del numero alto (quello in coincidenza con le settimane della moda, quello più letto dalle donne) del supplemento style del New York Times, “T”. Insieme a lei, aggrappata alle corde di un ring, la foto di “T” mostra due pugili androgine parecchio incazzate. Annunciano un servizio interno immenso, otto pagine in cui, tra foto di opere di protesta anni Settanta, si racconta soprattutto la storia dell’opera più famosa di Judy Chicago, “The Dinner Party”, ora installata in modo permanente al Brooklyn Museum e di come questa settantottenne in t-shirt leopardata accompagni la giornalista a rivedere un simbolo della rivolta femminista americana, esposto per la prima volta il 14 marzo 1979 al Museo di Arte Moderna di San Francisco: un omaggio fiammeggiante e triangolare a 999 donne eroiche della storia, da Saffo a Elizabeth Blackwell. E’ un recupero interessante se lo si considera come recupero. Ma se lo si brandisce, di nuovo diventa womenwashing, rifarsi la facciata femminista con una battaglia artistica che si basava sul fatto che alle donne, Judy Chicago in testa, quarant’anni fa non venisse riconosciuto lo stesso statuto talentuoso che ai maschi. Una battaglia che dopo Marina Abramovic, per dirne soltanto una, non solo non regge più, ma suona controproducente. 

 

Forse la risposta è invece nel secondo dei libri Einaudi presentato nel giorno delle Donne al Salone: “Fame. Storia del mio corpo” di Roxane Gay. Questo memoir-testimonianza, che arriva da noi a nove mesi dall’uscita, è forse il più incazzato del 2017 e in America non ha fatto discutere, ha fatto letteralmente sfracelli: scrittrice e docente universitaria la Gay racconta la storia di come dai 13 ai 25 anni il suo peso sia arrivato ai 261 chili, di come il cibo sia stato l’unico confronto dopo un’orribile violenza subìta e di come la vita degli obesi sia un percorso a ostacoli. Ma è di nuovo una storia di copertura, per quanto tragica e sofferta: le trecento pagine di “Fame” sono diventate subito uno dei manifesti più branditi dalle follower del #MeToo perché contengono una protesta carnofila non solo contro la società maschilista nella sua essenza astratta, ma contro i corpi di maschi e femmine che la sostengono con il loro peso iniquo, la loro eventuale bellezza, il loro modo sovrastrutturato di mangiare e di guardare la donna attraverso la lente ossessiva delle forme.

 

Di nuovo niente di nuovo, potremmo dire, eppure, quando a pochi giorni dalla sua uscita, “Fame” è diventato al volo il libro del mese di Amazon, l’Amazon Book Review ha scritto: “Se sei una donna in America, è molto probabile che, a prescindere dalla tua taglia, coltivi una certo rapporto feticista con il cibo. Se gli abiti sembrano disegnati per calzarti a pennello, congratulazioni. Le altre sono condannate a rimanere nell’ombra, che è esattamente il posto dove Roxane Gay voleva starsene. Nel suo memoir brutalmente onesto, racconta come un aggressione sessuale subita durante l’infanzia l’abbia condotta a prendere peso di proposito per poter diventare invisibile e quindi “in salvo”. Se pensate che questo sia un memoir sul trionfo seguìto a una perdita di peso, la Gay vi avverte all’inizio del volume: siete in errore. Ciononostante è egualmente un trionfo. “‘Meritiamo di essere considerate oltre la realtà dei nostri corpi’, è la lezione che dobbiamo imparare da questa esperienza”.

 

Una storia triste, molto più triste che essere considerate impure e misteriose per le nostre mestruazioni. Ma quel che alla fine è davvero triste è che anche una sola lettrice, anche una sola donna possa pensare che superare di proposito i duecento chili possa rappresentare, invece che l’inconsolabile reazione a un trauma, una forma di protesta efficace contro lo sciovinismo e, fatta sua l’esperienza della Gay, possa usare il suo proprio corpo contro se stessa. Passi se una donna lo facesse per il piacere di una torta al cioccolato al giorno, passi se decidesse di tagliare le gomme dell’auto del suo nutrizionista o infilare bacche di goji nelle mutande del suo istruttore di yoga. Ma che bisogno c’è di schiacciare il senso di colpa sotto 261 chili e poi metterlo in un libro all’urlo di “In questo libro non mi vedrete ritratta in copertina riempire con il mio intero corpo una sola delle gambe dei jeans che indossavo prima”? “Fame” sembra a prima vista un memoir contro il pregiudizio, contro secoli di mercificazione del corpo delle donne. Ma costruito così è solo un libro contro gli stupidi che non distinguono una mestruazione da un’emorragia e insieme un libro che eleva una terribile esperienza familiare a esempio per l’umanità. Ora, se il femminismo di Roxane Gay ha come obiettivo gli stupidi, chapeau per il vasto programma, ma è una battaglia che va oltre la distopia. Se invece il modello è Ta Nehisi-Coates, è davvero il caso di gridare “Not In My Name”: ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

 

Quanta sofferenza c’è nella questione femminile? Tutta quella che ci mettiamo. Prima di continuare a protestare, dovremmo smettere di soffrire nella solitudine delle nostre camerette e questo è un percorso individuale, che non può essere rappresentato da nessun guru, per quanto femmina. “In “Bad Feminist” (Harper), uno dei suoi primi saggi, è proprio la Gay a scrivere: “Il problema con i movimenti è che troppo spesso li si associa con le figure più visibili, quelli che hanno il palcoscenico più grande e le voci più alte e provocatorie… Donne che difendono il femminismo come parte del proprio brand. Confondiamo il femminismo con il Femminismo Professionista”. La sensazione è che questo sia accaduto anche con il #MeToo, ma che stavolta sia più difficile rendersene conto perché parliamo soprattutto di rete. E nulla come la rete può diventare opportuno e fideistico. Ma per essere felici (non vogliamo forse essere felici?) tocca far fatica e decidere da sole. Decidere magari anche su questioni altissime, tipo se siamo femministe all’americana o vegane alla francese. Che poi significa cose umanissime: se ai maschi si vuol fare un servizio alla “Red sparrow” (Francis Lawrence, papà di Jennifer) – scuoiarli vivi e consegnare le fettine all’Utopia, poi innamorarci di uno solo e mettere tra noi e lui settemila chilometri – o alla “Uno + Una” (Claude Lelouch, 2015): un uomo, una donna e anni, figli, continenti, tradimenti, malattie. Necessari a capirsi, mai. Ad amarsi, forse.

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