Fabrizio Frizzi (foto LaPresse)

La morte di Frizzi e l'obbligo social di apparire addolorati

Simonetta Sciandivasci

Da Alessandro Cattelan a Michelle Hunziker, in tanti criticati per non aver espresso il loro cordoglio attraverso Facebook o Twitter. Riusciamo ancora ad ammettere la separazione tra reale e virtuale? Tra pubblico e privato?

“Sei l'unico che non ha scritto due righe per Frizzi, ma sempre e solo per la tua trasmissione! Mi sei calato… complimenti!”, ha scritto un tale, seguito da molti altri tali e quali, ad Alessandro Cattelan, su Twitter. Stessa mozione è stata presentata anche a Michelle Hunziker e Selvaggia Lucarelli. Sapete come va, quando si è bersagliati da una di queste irritazioni e/o indignazioni che sembrano collettive e invece sono corporative: va che tocca rispondere, spiegarsi, giustificarsi e, certe volte, addirittura chiedere scusa.

 

 

Che bella (bellissima, per l'esattezza) era quella canzone di qualche estate fa, di Fedez e J-Ax, che faceva: “Tutto questo navigare senza trovare un porto, tutto questo sbattimento per far foto al tramonto, che poi sullo schermo piatto non vedi quanto e profondo”. “Ogni ricordo è più importante condividerlo che viverlo, vorrei ma non posto”. Era il 2016 e la canzone ebbe successo non solo perché era bella, ma pure perché diceva molto bene che dovevamo piantarla di usare Facebook (e Twitter e Instagram e compagnia bella) per certificare la qualità di tramonti, vacanze, cene con gli amici, e, invece, badare a goderceli.

 

Sono passati due anni, nemmeno pieni, e non solo non l'abbiamo piantata, ma quella certificazione è diventata addirittura un'autenticazione. Cattelan ha scritto: “Stupido io a pensare che esistano ancora cose che si possano vivere fuori dai social”. E questo è un punto: riusciamo ancora ad ammettere la separazione tra reale e virtuale, e - ancora più difficile - tra privato e pubblico? Siamo realmente consapevoli che Facebook non è l'indice indiziario di chi siamo e cosa proviamo, perché ne facciamo, come di tutte le cose, un uso manipolatorio?

 

È una delle prima cose che impariamo a scuola: persona, per i latini, era il nome della maschera che gli attori indossavano a teatro. Essere nel mondo è di fatto un'operazione costante di sottrazione, imbrigliamento e mistificazione di sé, condotta su di sé: uno spettacolo o, se volete, una bacheca, un profilo. La rete ci consente di comunicare senza arrossire, balbettare, pagare le conseguenze di quello che diciamo e questa garanzia ha finito per convincerci che il solo spazio in cui far cadere la maschera sia quello che ci mette a disposizione. Se Internet smaschera ed è un luogo di verità, chi non ne fa uso ha necessariamente qualcosa da nascondere.

 

Non siamo solo quello che facciamo: siamo anche quello che non facciamo. Non siamo solo quello che diciamo, ma pure quello che non diciamo (e non importa dove, né come). Selvaggia Lucarelli ha scritto di aver evitato qualsiasi post perché era certa che sarebbe stata rimproverata e accusata di ipocrisia: qualche anno fa aveva avuto un diverbio con Frizzi, i giornali ne avevano parlato, molti - come sempre - avevano esagerato. È l'esempio perfetto del modo in cui l'interazione virtuale sui social network abbia indotto chi ne fruisce a censurare la propria spontaneità.

 

Abbiamo sempre faticato a riconoscere la possibilità che un dolore, anche il più forte di tutti, potesse non lasciare traccia su un viso: quante volte ci siamo accaniti sugli indiziati di omicidio quando i loro occhi, in televisione, ci sembravano freddi? Quante altre abbiamo dedotto l'affezione di un figlio verso un genitore morto dalle lacrime che versava al suo capezzale? Sentire, per noi, ha sempre corrisposto con l'esprimere: a un certo punto, la regola si è trasferita su Facebook e l'effetto è stato esplosivo. Quello che pretendevamo di rintracciare su un viso, abbiamo preteso di poterlo rintracciare in uno status.

 

Non conta quanto numerose siano le prove di come la realtà che finisce là sopra sia truccata e artificiale. Non conta illuminare il paradosso che sta nel richiedere autenticità a qualcosa di non autentico, nel trasformare in sonda del reale qualcosa che nel reale non poggia neanche i piedi. Perché inautentica è l'autenticità che richiediamo, verso cui spingiamo, a cui esortiamo sempre e solo gli altri. È come la faccia di Christina Aguilera sulla copertina di Paper di qualche giorno fa: truccata da non truccata. Chili di fondotinta per sembrare al naturale, non per esserlo (è la tendenza beauty del momento, si chiama no-makeup). Allo stesso modo, chi si è preoccupato di controllare che tutti gli uomini e donne dello spettacolo avessero provveduto a manifestare il proprio dolore per la morte di Frizzi su una piattaforma virtuale, e hanno poi indirizzato improperi a chi non lo aveva fatto, cercavano solo una conformità a quello che ritengono sia naturale faccia una persona davanti a una tragedia: urlare, di modo che tutti sentano.

Il giudice, fazioso e terribile, che esiste in ognuno di noi, ha trovato impiego in Facebook, il solo tribunale disposto a istruire processi per condannare ciò che appare e non ciò che è.