L'età dell'impazienza
Irascibili e gelosi. L’accelerazione impressa dalla virtualità alla percezione del tempo ci ha cambiati per sempre
La freccia rotante del tentato collegamento al browser è diventata la misura della nostra impazienza. Restiamo a osservarla inermi per venti secondi al massimo, poi cambiamo luogo di ricezione, motore di ricerca e, non di rado, umore. Ho scoperto che qualcuno, in Sapienza, ha dedicato all’ipnotico movimento della freccetta e alla frustrazione che ne deriva (“c’è un mondo qui dentro e io ne sono tagliato fuori”) un paragrafo in una tesi di dottorato in psicologia dell’apprendimento, descrivendone anche i sintomi: ansia, irritabilità, distrazione. Quest’ultima è la bestia nera di chi conta sul collegamento ottimale per venderci qualcosa, di solito proprio gli oggetti e i servizi che ci interessano di più per ragioni che ci sono chiare da tempo e per le quali Mark Zuckerberg sta assistendo al lento ma progressivo sgretolarsi del suo impero costruito sulla violazione della privacy mondiale.
La freccia rotante del tentato collegamento al browser e la frustrazione che ne deriva. Sintomi: ansia, irritabilità, distrazione
Ognuno di noi viene ormai raggiunto con tempismo inquietante dall’immagine del prodotto di cui avrebbe ipoteticamente bisogno o che desidera di più in quel momento; nel mio caso, l’altra sera, su Instagram, da un top blu monospalla con scollo a volant. Essendo quasi mezzanotte, orario di quel browsing pre-notturno altamente sconsigliato dai medici, non me la sono presa più di tanto, anzi ho perfino ringraziato la mia buona stella quando, a metà della transazione, il collegamento tipicamente instabile delle case dai muri spessi è saltato un attimo prima che comunicassi gli estremi per il pagamento. Mentre dormivo beata e già dimentica del top, come tutti gli acquirenti di impulso, che sono poi la maggioranza e la ragione prima dell’esistenza dell’e-commerce di lusso, qualcun altro invece vegliava ed era impaziente per me. La mattina dopo, quando sono arrivata in studio e ho acceso il computer, ho trovato al mio indirizzo mail personale, che ero certa di non aver comunicato, un messaggino in attesa che mi redarguiva dolcemente: “Hi Maria Fabiana, you didn’t complete your shopping yesterday”, seguito da un vademecum procedurale assistito per farlo nel più breve tempo possibile, cioè prima che mi passasse ogni residua voglia del top blu che, come gli operatori del commercio mondiale online sanno benissimo, è il secondo grande scoglio da farci superare perché, una volta ricevuto quel dannatissimo numero di nove cifre della nostra carta di credito, possano finalmente e legittimamente ritenerci presi nella rete, in senso metaforico e no. La faccenda è andata avanti per un paio di giorni, accompagnata dall’offerta di capi similari e via via meno costosi, fino a quando ho mandato una segnalazione al gestore del browser, che si è subito scusato con una delle tipiche risposte generate automaticamente per lenire quella che, da impazienza, si era trasformata in intolleranza (a ogni azione ne corrisponde un’altra uguale e contraria, terzo principio della dinamica molto frequentato anche dall’informatica) e rassicurarmi circa il suo interesse per il mio “benessere”.
Esponendoci alla verifica comune dei social, dei selfie pubblicati ovunque, abbiamo acquisito anche modi spazientiti
Considerando che, secondo un report diffuso qualche giorno fa da Goldman Sachs, nel giro di sette anni i ricavi delle piattaforme multibrand online sui beni di lusso passeranno dall’attuale uno al dieci per cento, con un accumulo di 60 miliardi di euro in più sulle stime, è evidente che dietro lo schermo ci sia gente interessata al mio benessere più della mia stessa famiglia, e lo stesso vale per chiunque di noi. Che cosa sarà successo nel 2025 al nostro rapporto con i social media non è dato sapere: già adesso va molto di moda chiudere il proprio account su Facebook dichiarandosi indignati con Zuckerberg e impazienti di vederlo tracollare sotto il peso dei miliardi accumulati sull’analisi e la vendita delle nostre minuzie quotidiane. Di sicuro, l’accelerazione impressa dalla virtualità alla percezione spazio-temporale nei dieci anni appena trascorsi ci ha però già cambiati per sempre.
La soglia di tolleranza per ogni minimo ritardo nella soddisfazione di qualunque nostro desiderio è diminuita fino quasi ad annullarsi, facendoci regredire a uno stato di perenne agitazione infantile: due minuti di mancata risposta a un messaggio ci mandano nel panico o ci riempiono di sospetti come mai sarebbe accaduto nell’epoca dei telefoni fissi, quando il destinatario avrebbe potuto legittimamente essere uscito di casa o dall’ufficio oppure fare un sonnellino in un’altra stanza, addirittura da solo. Adesso, se non si è pronti al comando scoppia la rissa: non “come stai” ma “perché non rispondi”, che sa già di imperio e di possesso impaziente. Anche volendo togliere da questa breve riflessione i secoli delle ballate tristi sugli amori lontani e sulle “lettere che giunsero, ma troppo tardi”, caposaldo della lirica sentimentale negli anni della Guerra di secessione, è fin troppo evidente che la possibilità di ottenere risposte immediate a quasi ogni nostra curiosità, richiesta di informazioni o desiderio affettivo o sessuale, abbia reso la pazienza una virtù quasi impossibile da concepire.
La soglia di tolleranza per ogni minimo ritardo nella soddisfazione di qualunque nostro desiderio è diminuita fino quasi ad annullarsi
Sostantivo derivato da patire, cioè soffrire senza reagire, dunque tollerare e insomma attendere, la pazienza nulla spartisce con l’esistenza perfino del più discreto fra di noi, fosse pure un tipo iscritto solo a Whatsapp o a Messenger con l’idea di risparmiare sul costo degli sms, cioè senza essersi accorto di aver consegnato nel frattempo tutti i propri dati personali sempre all’odiato Zuckerberg in cambio della presunta gratuità dei messaggi. Adesso anche un uomo discreto e inafferrabile come il Palomar di Italo Calvino entrerebbe in ansia se la moglie, dopo aver segnalato la ricezione del messaggino whatsapp e presumibilmente la sua lettura dalla doppia spunta blu a margine, non rispondesse in battuta. Le forme della pazienza ci sembrano lontane almeno quanto la santità o le sembianze del divino sulle quali già sant’Agostino era in impiccio, ritenendo difficile coniugare l’impassibilità di Dio con la sua infinita pazienza e risolvendo dunque il rebus con uno spariglio: “La sua pazienza è dunque ineffabile, come è ineffabile la sua gelosia, la sua ira e gli altri moti somiglianti, che se noi pensassimo essere uguali ai nostri, dovremmo escluderli tutti”, scriveva il vescovo di Ippona, affiancando molto opportunamente all’impazienza i suoi derivati più diretti e a noi comprensibili: gelosia e ira. Quanto sia ormai minima la nostra tolleranza alla mancata solerzia altrui nel rispondere alle nostre richieste si può capire solo restando privi del famoso collegamento per quarantott’ore, meglio se per cause naturali come un soggiorno in Bhutan o anche un weekend di trekking in Val Grande, fra il Lago Maggiore e la Svizzera, rimasta una delle ultime oasi selvagge d’Europa e dunque puntualmente battuta da qualche turista che, incapace di orientarsi senza Gps e cioè immediatamente e senza la fatica di calcolare punti e direzione con la cartina, si perde e deve essere recuperato dalle guide: per le prime ore, si soffre come drogati in crisi di astinenza, maneggiando compulsivamente il cellulare nella speranza che ci dia un segno di vita. Certificata la sua irraggiungibilità da parte di chiunque, gestori compresi come da freccina rotante a vuoto, tentiamo di placare l’ansia raccontandoci che il mondo non soffrirà senza di noi e sperando di essere smentiti. Inutilmente. La nostra impazienza pare inversamente proporzionale alla necessità che il mondo, ma anche i nostri cari, mostrano di avere di noi. Ed è questo che ci manda ai pazzi.
In questi giorni, sulle reti televisive nazionali, viene trasmessa una campagna contro la violenza sulle donne dove una serie di messaggini privi di risposta scatena la rabbia di un fidanzato adolescente fino all’agguato alla ragazza che esce di casa. Può sembrare ovvio, banale, ma difficilmente questo sarebbe accaduto con uno scambio di lettere e perfino in presenza dell’eventuale valletto in attesa della risposta: ci sarebbe stato il tempo per riflettere, attendere, compatire eccetera. Poi, magari, l’imboscata sarebbe stata architettata lo stesso (l’idea che ci facciamo di un aumento della violenza contro le donne negli ultimi anni è data dalla sua rappresentazione e discussione, giustissima per carità, ma è accertato che gli uomini tendano a uccidere altri uomini in una proporzione di tre a uno rispetto alle donne): un’eventuale rottura non sarebbe però stata immediata o percepita come tale dalla platea dei cosiddetti “amici” di Facebook, che sono non di rado elementi scatenanti dell’impazienza e della rabbia. Al di fuori dei social, cioè in assenza di pubblico e di claque, l’impazienza sarebbe stata contenuta, la rabbia sarebbe forse stata deviata su altri obiettivi meno personali, lo smacco si sarebbe stemperato nel tempo, trasformandosi in una narrazione diversa da quella sfacciata del selfie, del commento e del like mancato.
Quante volte ci siamo bevuti in piena consapevolezza e in nome dell’amicizia fantasiose panzane di rotture consensuali che erano, in realtà, abbandoni? Esponendoci al giudizio immediato, alla verifica comune dei social, dei selfie pubblicati ovunque, abbiamo acquisito non solo tempi, ma anche modi spazientiti. La letteratura di ogni tempo è costruita, cementata sul doppio pilastro dell’attesa e della pazienza, amorosa soprattutto. Raffaele-Dudù La Capria vi poggiò la sua prova d’esordio, “Un giorno d’impazienza”, romanzo a struttura circolare in cui il protagonista, un io narrante giovanissimo, viene frustrato nella sua “smania di affrettare il tempo” della maturità sessuale da una ragazza meno libera di quanto si aspetti, e comunque non per lui. Fino a qualche decennio fa, “non bruciare i tempi” era il primo monito che le madri davano alle figlie in fiore, intuitivamente consce di quello che una serie di studi del Max Planck Institut di Berlino e la Cornell University hanno evidenziato solo da un paio di anni, e cioè che la tipica impazienza giovanile, con i suoi scatti d’ira e i suoi desideri irrefrenabili, è dovuta alla mancata completezza di alcuni circuiti cerebrali che collegano lo striato e la corteccia prefrontale dorso e ventrolaterale del cervello. Adesso che le ragazzine si lasciano ingabbiare nel gioco pericolosissimo del sexting, e pare lo facciano due adolescenti su cinque dai quattordici anni in poi, il tempo è bruciato in partenza, e forse non è nemmeno l’impazienza del cuore di cui scriveva Stefan Zweig nel suo unico romanzo: è incapacità di riconoscere l’attesa.
Uno stato di perenne agitazione infantile: due minuti di mancata risposta a un messaggio ci mandano nel panico o ci riempiono di sospetti
Con il mutare delle condizioni in cui l’impazienza viene applicata, è cambiato anche il suo significato e il suo opposto. La pazienza è scandita, vive di lentezza in un mondo che dello slow ama solo il food, il movimento di valorizzazione culturale dell’abbuffata inventato da Carlo Petrini. Ma noi viviamo tempi immediati, dunque impazienti. Qui e ora. L’arco spazio-temporale limitato della freccetta, la rotellina del browser ci impediscono di pensare su piani diversi, ci inchiodano a un unico orizzonte, quello del “campo” del wi-fi, “ma qui prende o no?”, costringendoci alla gestione dell’esistente e alla linearità delle reazioni immediate. Emozioni semplici sulle quali si interrogava Charles Baudelaire “pittore della vita moderna” centosessant’anni fa (“la modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente”) e che il filosofo Salvatore Prinzi ha ripreso cinque anni fa nel suo “Buon uso dell’impazienza” anticipando il futuro dei miliardi e-commerce. “Apparteniamo all’impazienza da prima della storia”, scrive, ma è solo “nella realtà odierna che l’impazienza – di cui la crisi economica è il culmine, la massima espressione dell’ipermoderno – trionfa e diventa un elemento strutturale dell’esperienza umana”. Quella di oggi è dunque l’impazienza del commercio, la smania dell’avere che però, e forse questo punto meriterebbe una riflessione in più, ha toccato i tratti più profondi dell’essere, nostro e delle nostre relazioni con gli altri. L’impazienza del possesso tocca il nostro modo di agire e di pensare l’altro, di interpretarne le azioni e i desideri, negandoglieli perché i nostri possano prevalere. L’impazienza di oggi è l’impazienza del mondo, che estendiamo anche agli animali domestici. “Il cane è impaziente? ecco come sviluppare le sue capacità di attesa”, annunciava il sito del Corriere della Sera di qualche tempo fa, proponendo un video tutorial dove si spiegava che ai cani va insegnata la pazienza e i tempi dell’attesa. Noi potremmo imparare a fissare la freccetta a tempo indefinito.
generazione ansiosa