Foto LaPresse

Perché l'eterno antifascismo pavloviano non ci ha vaccinati contro il fascismo di ritorno

Massimiliano Trovato

E se proprio la cronaca recente dimostrasse che è giunta l’ora di fare i conti con l’antifascismo? Le parole di Giuseppe Berto e cinque temi di dibattito

Il solito 25 aprile, le solite cerimonie, le solite fruste polemiche di complemento: riti più attuali che mai, ci raccontano, a pochi mesi dai fatti di Macerata e da una campagna elettorale dominata dallo spauracchio fascista. E se, invece, proprio la cronaca recente dimostrasse che è giunta l’ora di fare i conti con l’antifascismo?

 

Nel 1963, intervenendo sul Resto del Carlino, Giuseppe Berto – gigante bistrattato della narrativa italiana del Novecento – proclamava: “Oggi il dovere e l’impegno è di essere non-fascisti, cosa assai più difficile e compiuta che non l’essere antifascisti”. Come noto, fascista, Berto lo era stato – sebbene più per senso pratico che non per afflato ideologico. Arruolatosi due volte, in Africa si dedicò soprattutto a baccagliare le indigene, anziché a battagliare il nemico; gli Alleati lo internarono nel Texas, dove nacque scrittore, con Alberto Burri che nasceva pittore; rientrato in Italia, si limitò a cambiare opinione: senz’avvertire l’urgenza – tanto comune tra i mussoliniani apostati – di riplasmarsi un imene democratico.

 

Dieci anni dopo, chiamato a contribuire – con Prezzolini, Ricossa, Ionesco… – allo storico Congresso internazionale per la difesa della cultura apparecchiato a Torino dal Cidas e da Armando Plebe, Berto tornò sull’argomento: “Io non sono fascista, ma nemmeno antifascista. […] Da anni ormai io amo definirmi afascista, fascista con un’alfa privativa [sic] davanti”, a indicare “un’avversione al fascismo così intima e completa da non poter tollerare l’antifascismo. […] D’accordo: il fascismo è violento, coercitivo, retorico, stupido. Però, come lo vedo io, l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido”.

 

A rileggerlo oggi, quel giudizio andrebbe integrato con un altro attributo: “impotente”. Come spiegare altrimenti che – dopo settant’anni di presidi, cortei, testimonianze; di Anpi, Arci, Acli; di Cigl-Cisl-Uil e Pci-Pds-Ds-Pd; di centri sociali, archi costituzionali, comitati di salute pubblica; di guerra civile permanente, azionismi di risulta, “ora e sempre Resistenza”, “Costituzione più bella del mondo”… – idee già morte e appese per i piedi vivano oggi una fragorosa rentrée? Come spiegare, in altre parole, che settant’anni di antifascismo non siano serviti a vaccinarci contro il fascismo di ritorno? Quest’indubbio fallimento domanda una spiegazione articolata.

 

Primo. Tratteggiare il fascismo come fenomeno storico è relativamente agevole: più complesso è distillarne l’essenza dottrinaria. La patente di fascismo è il coltellino svizzero dell’impegno: un “fascista” non si nega a nessuno – la Meloni, Salvini, Berlusconi, Grillo, Minniti, i mariti che non calano la tavoletta del cesso: tutti fascisti, nessun fascista – né si esita a bollare come fascista ogni vera o supposta smagliatura del tessuto sociale – il razzismo, il nazionalismo, il populismo, la legge Fornero o l’esclusione dell’Italia dai Mondiali. L’antifascismo pavloviano osteggia un avversario informe e apparentemente ubiquo solo perché si guarda bene dallo studiarne i caratteri.

 

Secondo. Un movimento che si definisce per opposizione, oltre a denotare una preoccupante subalternità ideologica, vincola la propria sopravvivenza alla salute del nemico. Qualcuno ricorderà la polemica agostana sullo stabilimento balneare di Sottomarina adornato di maschie e littorie citazioni: l’antifascismo ossessivo-compulsivo che vede emergenze ovunque per giustificare la propria esistenza e assimila ai giustizieri fai-da-te le maschere di provincia – il che equivale a confondere le Brigate rosse coi fanciulloni cinerei di Lotta comunista – dilapida la propria credibilità e annacqua quella stessa minaccia contro cui vorrebbe mettere in guardia.

 

Terzo. L’antifascismo militante è in larga parte un esercizio autoconsolatorio: le sue liturgie servono in primo luogo a marcare la differenza tra un “noi” e un “loro”: ed è un “loro” che non risparmia chi rifiuti di sottomettersi a quell’indolente logica binaria – “chi non è antifascista non è degno di fare parte della comunità democratica italiana”, ha dichiarato Renzi dopo l’agguato di Macerata. L’antifascista manicheo che invoca l’interessamento dei gendarmi per ogni guascone che zufoli “Faccetta nera” potrà massaggiarsi il cuore allo specchio con il balsamo della giustezza di sé, ma non farà avanzare di un millimetro la causa per cui crede di spendersi.

 

Quarto. Celandosi dietro una contrapposizione inesorabile, l’antifascismo rifugge ogni confronto argomentativo. Le opinioni, anche quelle ripugnanti, si disinnescano solo con altre opinioni; del resto, proprio gli attuali rigurgiti fascisti sconfessano l’antica illusione che bastasse ricacciare i camerati “nelle fogne” per castrarne le convinzioni. Per arginare il revival, viceversa, occorre accettare il corpo a corpo dialettico, formulando risposte più convincenti a domande che certo inquietano, ma di cui è miope ignorare la presenza. L’antifascismo archeologico che si contenta di coltivare la memoria è condannato a morire di vecchiaia.

 

Quinto. Rifiutare con sdegno di fronteggiare il fascismo sul piano delle idee e predicarne persino l’estromissione dai luoghi del discorso pubblico – lo scorso febbraio, l’appello di un gruppo di accademici indusse la Fondazione Feltrinelli a rimandare a tempi più accomodanti il previsto incontro con Alain de Benoist: che fascista non è, ma i censori non amano sottilizzare – non vale a isolarlo dalla cittadella democratica, bensì a irrobustirlo, ammantandolo della patina del martirio. Il fascismo va indagato, ispezionato, vivisezionato – un programma sinceramente afascista che, però, impone di superare la nostra incapacità di maneggiare il dissenso e di riconoscere in ogni frangente l’umanità dell’antagonista. E’ un lavorio paziente che i professionisti dell’antifascismo religioso non paiono in grado di sobbarcarsi: ma chi fa di tutta l’erba un fascio, absit iniuria verbis, rischia di restarvi impigliato.

Di più su questi argomenti: