Bamboccioni a chi?
Uno studio dell’Istituto Toniolo ribalta lo stereotipo del giovane italiano svogliato, sdraiato, menefreghista e disimpegnato
I giovani votano così, i giovani votano cosà. I giovani vogliono l’accordo Pd-Cinque stelle. I giovani non vogliono l’accordo Pd-Cinque stelle. I giovani sono populisti. I giovani sono progressisti. I giovani sono influenzati dai social network (perché li subiscono). I giovani non sono influenzati dai social network (perché li dominano). I giovani fuggono all’estero. I giovani restano in famiglia. I giovani non fanno più figli. I giovani vorrebbero farne ma non trovano lavoro. I giovani hanno capito come lavorare senza posto fisso. I giovani cercano il posto fisso. I giovani vogliono amori liquidi. I giovani tornano a volersi sposare presto. I giovani sono contro la tradizione. I giovani sono più tradizionalisti dei genitori. I giovani sanno che cosa vogliono. I giovani non sanno che cosa vogliono. I giovani sono bamboccioni e “sdraiati” (come diceva il titolo del libro di Michele Serra, recentemente accusato di classismo per un articolo sui bulli e precisamente per la frase “il livello di educazione… è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza”, frase il cui senso è stato poi spiegato da Serra in un successivo articolo su Repubblica). I giovani sono “choosy” (troppo esigenti quando capita un’occasione di lavoro, come diceva Elsa Fornero). I giovani sono violenti. I giovani sono tolleranti. I giovani sono svogliati, dipendenti dal cellulare, pecoroni e potenziali alcolisti da aperitivo. I giovani riscoprono la comunicazione faccia a faccia e sono salutisti. I giovani si trasferiscono in campagna. I giovani fuggono dalle città. E se i giovani non fossero quelli che i non-giovani raccontano?
I giovani visti dai non-giovani come un misto tra i “choosy” di Elsa Fornero e gli emuli di “Tanguy”, in famiglia a oltranza
Anche per sfatare il luogo comune che vede i giovani come contenitore vuoto di qualsiasi convinzione un tanto al chilo dei non-giovani, l’Istituto Giuseppe Toniolo ha stilato il Rapporto Giovani 2018, frutto di uno studio collettivo di docenti e scienziati e coordinato dal professor Alessandro Rosina, coadiuvato, tra gli altri, da Sara Alfieri, Daniela Barni ed Elena Marta. Lo studio, edito dal Mulino, ribalta completamente lo stereotipo del bamboccione, come non esistesse più neanche in natura il giovane simile al protagonista del film “Tanguy”, cult d’inizio anni Duemila in cui un ventottenne laureando in Lingue e filosofie orientali, capace di parlare correntemente cinese e giapponese, rivendica la scelta di non lasciare la casa dei genitori, al punto da rinviare la discussione della tesi per non dover prendere decisioni (in qualsiasi campo, compreso quello sentimentale: ha una ragazza fissa con cui non si decide ad andare a convivere, ma presenta con regolarità ai genitori le altre “amiche” la mattina a colazione – e i genitori a un certo punto giungono al parossismo di fargli qualche dispetto casalingo per indurlo a lasciare il nido). Nel Rapporto Giovani 2018, invece, la prima cosa che emerge è la voglia d’indipendenza. Dice il professor Rosina al Foglio: “Alla base di questa ricerca c’è anche il desiderio di contrastare i molti stereotipi sugli under 35; la curiosità di avvicinarsi davvero ai Millennial, senza preconcetti. Abbiamo cercato di osservarli con attenzione, pronti a registrare eventuali scarti e cambiamenti, e anche in alcuni casi seguendoli negli anni, a partire dal 2012, per verificare se effettivamente avessero mantenuto la direzione scelta”. Nel complesso, ne esce un ritratto non drammatico, e soprattutto lontanissimo da quello del giovane bruciato e maledetto (buono forse due o tre generazioni fa) o del giovane perso e vagolante attorno alla linea d’ombra. Lo smarrimento, se c’è, è temporaneo, e, dice Rosina, “a volte aggravato dalla permanenza in una famiglia d’origine che, se da un lato aiuta e sopperisce, e se permette di finire il percorso di formazione senza ansia, dall’altro può tramutarsi in una gabbia dorata, foriera di angoscia di segno opposto, come se il giovane che rimanda l’ingresso vero e proprio nell’età adulta poi lo facesse con il freno a mano tirato, titubante, timoroso”. Siamo in questo caso all’estremo opposto delle post-adolescenze traumatiche in questi giorni visibili al cinema nelle due storie diversissime, ma entrambe basate su fatti veri, di “Tonya”, ex pattinatrice con madre-padrona che trova se stessa soltanto al termine dell’inferno, e di “Molly’s game”, in cui la Molly del titolo, ex sciatrice con padre-padrone, arriva a spendere tutto il suo altissimo quoziente intellettivo nell’organizzazione di un giro di poker tra Los Angeles e New York, finendo per rischiare la vita e trovando il riscatto soltanto a prezzo di una feroce introspezione. Né siamo dalle parti di “Lady Bird”, romanzo di formazione diretto da Greta Gerwig (protagonista una ragazza del Midwest che non corrisponde al proprio luogo e al proprio tempo, ma si salva con l’autoironia). Siamo piuttosto dalle parti di un adattamento per gradi a una realtà che fino a dieci anni fa veniva vissuta come straniante, a partire dalla quasi certa morte del posto fisso, e giù giù fino alla quasi certezza dell’impossibilità di una vecchiaia da pensionato inteso come fotocopia del nonno di un tempo: magari relativamente giovane ma non ancora impegnato in una professione. Man mano che la ricerca procedeva, dice Rosina, un altro interrogativo diventava prioritario: capire “quale valore hanno i giovani per se stessi”, se è vero che il ritratto in negativo dei Millennial è da ridipingere. “Fossero veri i luoghi comuni dati spesso in pasto all’opinione pubblica, per esempio sui post-adolescenti descritti come studenti poco attenti e insofferenti, dovremmo allora avere dei venti-trentenni in gran parte temporeggiatori e disillusi. Ma non è quello che emerge dalla nostra ricerca”. (Tanto che la ricerca, qualche giorno fa, è stata citata come “buona notizia” sul sito del Corriere della Sera, che alle “buone notizie” dedica un inserto settimanale). Quello che emerge, prima di tutto, dice Rosina, è “l’evidenza trasversale di un profilo orientato al cambiamento”.
La capacità di resistenza a “situazioni” scomode (compresa la disoccupazione) e la “linea d’ombra” che si sposta
Nella parte della ricerca svolta da Alfieri, Barna e Marta le autrici parlano di “autotrascendenza”, come capacità di rapportarsi al contesto sociale. Ma anche di “autodeterminazione” intesa come “autonomia di pensiero e di azione”, “ricerca della novità” e lavoro sulle proprie “competenze”. Si scopre per esempio che, nella fascia d’età venti-ventidue anni, “l’autopromozione” (enfatizzazione del successo personale, affermazione sociale) è considerata prioritaria. Scrivono le autrici: “… se leghiamo queste preferenze valoriali ai compiti di sviluppo tipici della fase giovane adulta, possiamo comprenderle meglio: in tale fase del ciclo vitale l’iniziativa personale… legata anche a quel processo di differenziazione avviato in età adolescenziale, e le relazioni intime, al di fuori del contesto familiare, acquistano ancora di più un peso significativo. Uno degli obiettivi della transizione all’età adulta consiste proprio nel progressivo raggiungimento della responsabilità, che implica la strutturazione e la realizzazione di un progetto di vita: tale progetto riguarda sia l’impegno in una relazione affettiva stabile, tesa alla costituzione di una nuova famiglia, sia una realizzazione professionale”. E si scopre anche che “le giovani donne italiane sono più aperte al cambiamento e meno conservatrici dei giovani uomini”. E ciò “potrebbe essere letto come un progressivo avvicinamento del mondo valoriale femminile a quello tipicamente maschile, con un abbandono dei valori tradizionali della stabilità, dell’obbedienza e della devozione e una ridimensionata importanza dell’autotrascendenza (valore che in passato raccoglieva il maggior consenso tra le donne) a favore dell’autodeterminazione”.
Il “come votano i giovani” visto dall’interno e l’indipendenza come valore assoluto tra gli under 35 maschi e femmine
Ma che cosa succede a scuola? Com’è considerata la scuola da chi la frequenta come studente? Non di bullismo verso i professori e tra studenti e studenti si parla in questo caso, anzi. Già dal Rapporto giovani di due anni fa, dice Rosina, traspariva “sostanziale fiducia” dei giovani rispetto al valore formativo della scuola. Quello che è considerato carente, è la “sinergia” tra sistema formativo e mondo del lavoro: “… i giovani cercano di compensare il gap attivandosi di più, sia nella forma di una più ampia partecipazione alle attività istituzionali, sia documentandosi e interagendo maggiormente attraverso la rete”, dice il Rapporto. Soprattutto, i Millennial sembrano aver puntato molto sulle cosiddette “soft skills”, le competenze trasversali, non proprie di una specifica professione ma applicabili a compiti e contesti diversi: “Consentono di avere un atteggiamento versatile e aperto verso il cambiamento, ma anche di connettere in modo efficace sapere, saper fare e saper essere. Sono considerate strategiche per vari motivi. Perché aiutano a trasformare il ‘sapere’ tecnico in una performance lavorativa e organizzativa efficace e perché le competenze tecniche che serviranno tra dieci o vent’anni non sono necessariamente quelle di oggi, mentre le competenze trasversali consentono di andare oltre l’esecuzione di processi specifici: aiutano a imparare a stare nel mondo che cambia e ad agire come soggetti attivi nei cambiamenti…”. (E insomma, leggendo il Rapporto giovani 2018, sembra che la discussione su articolo 18 e Jobs Act sia superata da una specie di spirito autoconservativo pragmatico). Le soft skills, in base alla ricerca, specie la capacità di risoluzione dei problemi, l’esercizio del pensiero critico, la disciplina e la costanza nel raggiungimento degli obiettivi, unite alla capacità di gestire i conflitti e di confrontarsi con persone che la pensano in modo diverso, sono importanti anche per i disoccupati momentanei e per i cosiddetti “Neet”, giovani che non lavorano e non studiano: “… le soft skills permettono di “resistere in condizioni stressanti”, e chi sa resistere allo stress “tende a uscire prima dalla condizione di Neet o a cercare più a lungo lavoro senza cadere nello scoraggiamento”.
Il puntare sulle “soft skills”, abilità non legate a una professione particolare, più che la discussione su articolo 18 e Jobs Act
Ma che cosa succede quando si va a indagare nel presunto – e molto sfruttato retoricamente – “disinteresse” dei giovani verso la politica? In questo caso, in parte, la presunzione di disinteresse è confermata, ma sotto forma di “disaffezione”. I “disaffezionati”, contrariamente a quanto si possa pensare, sono trasversali ed equamente distribuiti tra categorie: la percentuale è del 39,5 per cento tra gli studenti, il 40,3 per cento presso i lavoratori e il 42, 8 per cento presso i Neet (“la sfiducia”, si legge poi nel Rapporto, “è trasversale a tutti i partiti tradizionali e solo in parte catturata dai movimenti di protesta. In larga parte sfocia nel disinteresse e nell’allontanamento dalla vita politica e dal dibattito stesso”). Emerge “un bacino molto ampio di incertezza e potenziale astensione che va a confermare l’idea di un comportamento elettorale delle nuove generazioni molto fluido e difficile da prevedere (sia rispetto alla scelta di andare a votare sia rispetto a quale segnale dare con il proprio voto formalmente). Una buona metà di questa larga disaffezione non si riconosce nella distinzione tra destra e sinistra, mentre l’altra metà sembra sopratutto delusa dalla propria area politica di riferimento”.
Indipendenti, ma anche più soli nel momento dell’ingresso vero nella vita adulta: la “Linea d’ombra” di Joseph Conrad si è spostata in avanti, ma resta valido forse il concetto simbolo: la giovinezza è una bella cosa, una cosa potente. Fin tanto che uno non ci pensa.
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