Foto di Dennis van Zuijlekom via Flickr

Scrutare la direzione paese dall'autobus qualunquista-rivoluzionario

Guido Vitiello

Il treno di Lenin è mito, ma capire il popolo è un altro viaggio

Lenin che arriva in treno alla Stazione Finlandia di Pietrogrado nell’aprile del 1917, di ritorno dall’esilio svizzero, dopo aver attraversato mezza Europa; Lenin camuffato da operaio che sale su un tram semivuoto per andare a Palazzo Smolny, nella notte del 24 ottobre, e prepararsi alla presa del potere. Solo del primo viaggio i mitografi bolscevichi hanno fatto un’epopea, lasciando in ombra il secondo, perché una locomotiva che sfreccia nel buio con i suoi tre fari accecanti si presta meglio a suggerire l’idea dell’inesorabilità storica della Rivoluzione. Il tram e i suoi fratelli, in quei primi anni del Novecento, al massimo erano serviti al neonato cinematografo per illustrare la comicità della vita metropolitana: gente sballottata dalle oscillazioni del filobus, grassone che cadono in grembo ai passeggeri, vecchiette che rincorrono l’omnibus e picchiano il conducente. La reputazione rivoluzionaria dell’autobus è perfino più bassa. Una raccolta di saggi di fine anni Ottanta (“Viaggio e modernità. L’immaginario del mezzo di trasporto tra ’800 e ’900”) lo presentava come il simbolo del quotidiano ritorno dell’identico – stesso orario, stesso percorso, stesse facce – e di una politica ridotta a mugugno: “Cento lire in più per la nuova tariffa oraria scatenano la rabbia dei narcisisti qualunquisti che puniscono l’aumento con pratiche catartiche di minaccia e di scempio…”.

 

Sarà anche per questo che tutti conoscono “La locomotiva” di Francesco Guccini e ben pochi si ricordano de “L’autobus” di Pierangelo Bertoli. Canzone meno memorabile, ma più futuribile: perché se la ballata del ferroviere vendicatore dei proletari era già alla sua epoca un pezzo di modernariato, a metà tra il canto anarchico e l’inno carducciano, l’autobus di Bertoli parlava oscuramente dell’avvenire, e prefigurava nel 1979 l’Italia in cui ci sarebbe toccato di vivere.

 

Lavoratori, donne, vecchi e giovani se ne stanno assonnati sull’autobus del mattino, ciascuno sul suo sedile, rassegnati al silenzio. Ma poi prendono coraggio, e attaccano a parlare delle cose che non vanno. Temi operai classici – il salario basso, gli abusi del padrone – si intrecciano a lamentele generiche a cui già un anno dopo Gianfranco Funari avrebbe dato voce con “Torti in faccia”, e poi con “Aboccaperta”: il prezzo della carne, la pensione, gli affitti, i figli sempre davanti alla tv. Tutti s’infervorano, unanimi, anche l’autista – “è un unico pensiero l’autobus del mattino” – perché hanno individuato il nemico: “La colpa è del governo, massa di farabutti”. Si può procedere, di fermata in fermata, verso il sol dell’avvenire: “L’autobus ora è vita, il sole è entusiasmante: che bel mattino è questo, domani sarà raggiante!”. Il comunistissimo Bertoli prendeva la più aleatoria delle compagini – la gente su un autobus, non certo la fabbrica – e la riscattava dalla malafama del qualunquismo chiacchierone infondendole, di lamentela in lamentela, una coscienza simil rivoluzionaria. La canzone descriveva qualcosa di simile al “gruppo in fusione” di Sartre, che si genera in momenti eccezionali, come la presa del Palazzo d’Inverno, quando una pluralità di elementi separati ed estranei – Sartre portava a esempio, vedi un po’, la coda alla fermata di un autobus – raggiunge il calor bianco e diventa una cosa sola nella prassi.

 

La locomotiva di Guccini era deviata lungo una linea morta prima di potersi schiantare contro il “treno dei signori”, ma l’autobus qualunquista-rivoluzionario di Bertoli, mentre sfumano le ultime note, è ancora in corsa. Verso dove? Al momento, tutto quel che è dato vedere è un presidente della Camera che fa finta di prendere l’autobus a beneficio dei fotografi e dei gonzi, e una sindaca di Roma che sta facendo del suo meglio perché le attese alle fermate non finiscano mai.

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